2. L'ideologia sociale dell'auto
Il difetto fondamentale delle auto è che esse sono come i castelli e le
ville sulla costa: dei beni di lusso inventati per il piacere esclusivo di una
minoranza molto ricca e che per struttura e per natura non erano affatto
destinate al popolo. Al contrario dell'aspirapolvere, del televisore e della
bicicletta, che mantengono tutto il loro valore d'uso anche quando tutti ne
dispongono, l'auto, come la villa al mare, non ha né interesse,
né vantaggi che nella misura in cui la massa non le possiede. Di fatto,
per la sua concezione come per la sua destinazione originaria, l'auto è
un bene di lusso. E il lusso, per natura, non si democratizza: se tutti
raggiungono il lusso, nessuno ne trae più alcun vantaggio; al contrario:
tutti imbrogliano, frustrano ed espropriano e sono a loro volta imbrogliati,
frustrati ed espropriati.
La cosa, se si tratta di ville al mare, è ammessa assai comunemente.
Nessun demagogo ha osato dire che democratizzare il diritto alle vacanze voglia
dire applicare il principio: Una villa
con spiaggia privata per ogni famiglia. Tutti possono capire che se ognuno
dei tredici o quattordici milioni di famiglie dovesse disporre anche solo di 10
m di costa, ci vorrebbero 140.000 km di spiaggia per poter accontentare tutti.
Attribuire ad ognuno la sua porzione, vorrebbe dire tagliare le spiagge in
fette così piccole - o costruire le ville così vicine l'una
all'altra - che il valore d'uso diverrebbe nullo, come diverrebbe il loro
vantaggio nei confronti di un complesso alberghiero. In breve, la
democratizzazione dell'accesso alle spiagge non ammette che un'unica soluzione:
quella collettivistica. E questa soluzione passa obbligatoriamente attraverso
la guerra al lusso costituito dalle spiagge private, privilegio che una piccola
minoranza si arroga a spese di tutti.
Ora, perché ciò che è del tutto evidente per le spiagge,
di solito non è ammesso per i mezzi di locomozione? Un'auto, proprio
come una villa con spiaggia, non occupa forse uno spazio divenuto scarso? Non
espropria gli altri utenti della viabilità (pedoni, ciclisti, coloro che
prendono il tram o l'autobus)?
Non perde,
l'auto, tutto il suo valore d'uso, quando ognuno usa la propria? E tuttavia non
si contano più i demagoghi che affermano che ogni famiglia ha diritto
almeno a un'auto e che è compito dello « Stato » che tutti possano
posteggiare a proprio agio, andare a proprio agio in città e partire insieme a tutti gli altri, a 150 km
all'ora, sulle strade del fine-settimana o delle vacanze. La mostruosità
di tale demagogia salta agli occhi e tuttavia la sinistra non disdegna di
ricorrervi. Perché mai l'auto è trattata da vacca sacra? Perché,
a differenza degli altri beni « privati », non è riconosciuta come un
lusso antisociale? La risposta va cercata nei due aspetti
dell'automobilísmo che seguono.
l.
L'automobílismo di massa materializza un trionfo assoluto dell'ideologia
borghese al livello della prassi quotidiana: fonda e mantiene in ciascuno la
credenza illusoria che ogni individuo può prevalere ed avvantaggiarsi a spese di tutti. L'egoismo aggressivo e
crudele del guidatore che, ad ogni momento, assassina simbolicamente « gli
altri », nei quali vede solo impedimenti materiali ed ostacoli alla propria
velocità. Questo egoismo aggressivo e competitivo rappresenta l'avvento,
grazie all'automobilismo quotidiano, di un
comportamento universalmente borghese. « Non si farà mai del
socialismo con questa gente » mi diceva un amico della Germania dell'Est,
costernato dallo spettacolo della circolazione di Parigi.
2. L'automobile
offre l'esempio contraddittorio di un oggetto di lusso, svalutato dalla propria
diffusione. Ma questa svalutazione pratica non ha ancora causato la sua
svalutazione ideologica: il mito del piacere e dei vantaggi dell'auto persiste,
quando i mezzi di locomozione collettivi, se venissero generalizzati,
dimostrerebbero la loro superiorità schiacciante. Il persistere di
questo mito si spiega facilmente: il generalizzarsi dell'automobilismo
individuale ha emarginato i trasporti collettivi, modificato l'urbanistica e
I'habitat e trasferito sull'auto delle funzioni resesi necessarie a causa della
sua diffusione. Ci vorrà una rivoluzione ideologica (« culturale ») per
spezzare questo circolo. Non bisogna certo aspettarsela da parte della classe al
potere (di destra o di sinistra che sia).
Ora
analizzerò questi due punti più dettagliatamente. Quando è
stata inventata, l'automobile doveva offrire a qualche borghese molto ricco un
privilegio del tutto inedito: quello di andare molto più veloce di ogni
altro. Nessuno ci aveva mai pensato: la velocità delle diligenze era
proprio la stessa per i ricchi e per i poveri; il calesse del signore non
andava più veloce del carro del contadíno ed i treni portavano
tutti alla stessa velocità (non adottarono velocità diverse che
in concorrenza con l’automobile e l'aereoplano). Non vi era dunque, fino alla
svolta del secolo scorso, una velocità di spostamento per una
élite ed un'altra per il popolo. L'auto avrebbe mutato tutto: estendeva,
per la prima volta, la differenza di classe alla velocità ed al mezzo di
locomozione.
Questo mezzo di
locomozione sembrò dapprima inaccessibile alla massa, tanto diverso era
dai mezzi ordinari; non vi era niente di comune tra l'automobile e tutto il
resto: il carro, il treno, la bicicletta o l'omnibus a cavalli. Esseri
eccezionali se ne andavano a spasso su di un mezzo autotrainante, pesante una
tonnellata ed i cui organi meccanici, estremamente complicati, erano tanto
più misteriosi in quanto celati ad ogni sguardo. Vi era infatti anche
questo aspetto che giocò pesantemente sul mito dell'automobile: per la
prima volta gli uomini cavalcavano veicoli individuali, i cui meccanismi di
funzionarnento erano loro del tutto sconosciuti, la cui manutenzione e perfino
l’alimentazione dovevano venire affidate a degli specialisti.
Il paradosso dell'automobile: apparentemente questa offriva ai proprietari
un'indipendenza illimitata, permetteva loro di spostarsi a ore e secondo
itinerari di loro scelta, ad una velocità pari o maggiore di quella del
treno; ma in realtà tale autonomia apparente aveva come contropartita
una radicale dipendenza. Al contrario del cavaliere, del carrettiere o del
ciclista, l'automobilista sarebbe dipeso per il proprio rifornimento di
energia, come del resto per la riparazione del minimo guasto, dai commercianti
e dagli specialisti della carburazione, della lubrificazione, della messa in
moto e del ricambio di pezzi di serie. Al contrario di tutti i proprietari di
mezzi di locomozione del passato, l'automobilista avrebbe avuto un rapporto di utente e di consumatore - e non di possessore
e di padrone - con il veicolo, di cui
formalmente era il proprietario. In altre parole, questo stesso veicolo lo
avrebbe costretto a consumare e ad utilizzare una mole di servizi commerciali e
di prodotti industriali, che solo terze persone avrebbero potuto fornirgli.
L'autonomia apparente del proprietario di un automobile celava la sua radicale
dipendenza.
I magnati dei petrolio intuirono per primi il vantaggio che si sarebbe potuto
trarre dal diffondersi dell'automobile: se la gente poteva essere spinta ad
andare in macchina, si sarebbe potuto venderle l'energia necessaria per farlo.
Per la prima volta nella storia, gli uomini sarebbero divenuti contribuenti,
per la propria locomozione, di una fonte di energia commerciale. Ci sarebbero
stati altrettanti clienti dell'industria petrolifera quanti gli automobilisti -
e siccome ci sarebbero stati altrettanti automobilisti quante le famiglie,
tutta quanta la gente sarebbe divenuta cliente dei petrolieri. Stava per
realizzarsi la condizione sognata da ogni capitalista: tutti gli uomini
sarebbero dipesi per i propri bisogni quotidiani da una merce, di cui una sola
industria avrebbe avuto il monopolio.
Non ci restava
che portare la gente a viaggiare in macchina. Il più delle volte questa
non si faceva pregare: bastava, con la fabbricazione in serie e le catene di
montaggio, abbassare sufficientemente il prezzo di un'auto; la gente si sarebbe
precipitata a comperarla. E infatti si precipitarono davvero, senza rendersi
conto di essere presi per il naso. Che cosa prometteva loro infatti l'industria
automobilistica? Semplicemente questo: « Anche voi ormai avrete il privilegio
di andare in macchina come i signori e i borghesi, più velocemente di
tutti. Nella società dell'automobile, il privilegio di una élite
è alla vostra portata ». La gente si precipitò sulle auto fino a
quando, arrivandovi anche gli operai, gli automobilisti si accorsero,
frustrati, di essere stati bellamente raggirati. Era stato promesso loro un
privilegio da borghesi; si erano indebitati per ottenerlo ed ecco che si
accorgevano che tutti lo ottenevano nello stesso tempo. Ma che cosa è un
privilegio, se tutti possono arrivarvi? Un mercato di scemi. Peggio: è
ognuno contro tutti. E la paralisi generale causa un alterco generale.
Poiché quando tutti pretendono di marciare alla velocità
privilegiata dei borghesi il risultato è che non marcia più
niente, che la velocità di circolazione urbana cade - a Boston come a
Parigi, a Roma o a Londra - al di sotto di quella dell'omnibus a cavalli e che
la media su tutte le tangenziali a fine settimana scende al di sotto della
velocità di un ciclista. Niente da fare: sono stati rovati tutti i
rimedi; finivano tutti, in ultima analisi, per aggravare il male. Si moltiplichino pure le radiali e le
circonvallazioni, le trasversali sopraelevare,
le strade a sedici corsie ed a pedaggio, il risultato è sempre lo
stesso: più strade di servizio ci sono e più auto vi affluiscono
e più è pesante la congestione della circolazione urbana. Fino a
che ci saranno delle città, il problema non sarà risolto: per
quanto larga e veloce possa essere una strada di svincolo, la velocità
alla quale le auto la lasciano per entrare in città non può
essere maggiore di quella con cui queste si disperdono per la rete urbana. Fino
a quando la velocità media, a Parigi, sarà da 10 a 20 km orari,
secondo le ore, non si potranno lasciare a più di 10 o 20 km le
circonvallazioni e le autostrade che alimentano la capitale. Bisognerà
anzi lasciarle a velocità molto più ridotte quando gli accessi
saranno saturi, e questo rallentamento si ripercuoterà a decine di km a
monte se la strada di accesso sarà satura. Lo stesso dicasi per tutte le
città. E’ impossibile circolare a più di 20 km orari di media
nell'intreccio di strade, viali e corsi intersecantisi che, oggi, sono propri
delle città. L'immissione di
un qualsiasi veicolo più veloce disturba la circolazione urbana,
provocando ingorghi ed infine la paralisi.
Se l'automobile
deve prevalere, non c'è che una soluzione: sopprimere le città,
vale a dire situarle su centinaia di km lungo strade monumentali e lungo
periferie autostradali. E’ ciò
che è stato fatto negli Stati Uniti. Ivan Illich ne riassume il risultato in queste cifre sbalorditive: «
L'Americano medio dedica più di 1500 ore all'anno (cioè 30 ore
settimanali o 4 ore giornaliere, domenica compresa ) alla sua macchina: questo
comprende le ore che egli passa al volante, in marcia o fermo; le ore di lavoro
necessarie per pagarla e per pagare la benzina, le gomme, i pedaggi,
l'assicurazione, le contravvenzioni e le tasse... A questo Americano occorrono
dunque 1500 ore per fare (in un anno) 10.000 km, al ritmo di 6 km all'ora. Nei
paesi senza industria di trasporti, la gente si sposta a piedi esattamente a
questa stessa velocità, con il vantaggio supplementare che può
andare dove vuole e non solo lungo le strade asfaltate ».
E’ vero, precisa
Illich, che nei paesi non industrializzati gli spostamenti non assorbono che
dal 3 all'8% del tempo sociale (ciò che in realtà corrisponde da
2 a 6 ore settimanali). Ecco la
conclusione suggerita da Illich: l'uomo a piedi percorre in un'ora altrettanti
km dell'uomo motorizzato, ma impiegando per questi spostamenti un tempo da 5 a
10 volte minore. Morale: più una società diffonde veicoli veloci
e più - superato un certo limite - la gente ci passa e ci perde del
tempo a spostarsi. E’ matematico.
La ragione? Ma
l'abbiamo appena vista: si sono sparpagliati gli agglomerati lungo
interminabili periferie autostradali, poiché questo era l'unico mezzo
per evitare la congestione dei veicoli nei centri abitati. Ma questa soluzione
ha un rovescio evidente: la gente può circolare a suo agio soltanto se
è lontana da tutto. Per far posto all'auto si sono moltiplicate le
distanze: si abita lontano dal luogo di lavoro, lontano dalla scuola, lontano
dal supermercato - una situazione che renderà necessaria una seconda
auto affinché la « casalinga » possa fare la spesa e portare i bambini a
scuola. Distrazioni? Non se ne parla neppure. Amici? Ci sono i vicini... e
ancora ancora. La macchina, tutto sommato, fa perdere più tempo di
quanto non ne economizzi e crea maggiori distanze di quante non ne copra.
Certo, potete andare al lavoro a 100 km all'ora; ma è perché
bitate a 50 km ed accettate di perdere una mezz'ora per coprire gli ultimi 10
km. Bilancio: «La gente lavora una buona parte della giornata per pagare gli
spostamenti necessari per recarsi al lavoro ». (Ivan Illich). Forse mi direte: « Almeno, in questo modo,
una volta finita la giornata di lavoro, si sfugge all'inferno cittadino ». Ci
siamo: ecco la confessione. « La città » è percepita come I'«
inferno », non si pensa che ad evaderne o ad andare a vivere in provincia,
quando, per generazioni e generazioni la grande città, oggetto di
meraviglia, era il solo luogo dove valesse la pena di vivere. Perché
questo rovesciamento? Per un'unica ragione: l'auto ha reso inabitabile la
grande città. L'ha resa maleodorante, rumorosa, asfissiante, polverosa,
ingorgata a tal punto che la gente non ha più voglia di uscire la sera.
Allora, poiché le auto hanno ucciso la città, occorrono ancora
più auto sempre píù veloci per fuggire su autostrade verso
periferie ancora più lontane. Circolo impeccabile: dateci più
auto per sfuggire alle catastrofi causate dalle auto. Da oggetto di lusso e da
fonte di privilegio, l'auto è così divenuta oggetto di un bisogno
esistenziale: ce ne vuole una per sfuggire all'inferno cittadino dell'auto. Per
l'industria capitalistica la partita è dunque vinta: il superfluo
è divenuto necessità. Inutile ormai tentare di persuadere la
gente che desidera un'auto: la sua necessità è iscritta nelle
cose. E’ vero che possono sorgere dei dubbi osservando l'evasione motorizzata
lungo gli assi di fuga: tra le 8 e le 9,30 del mattino, tra le 5,30 e le 7 di
sera per cinque o sei ore alla fine di settimana, i mezzi di evasione si
allineano in processione, para-urti contro para-urti, alla velocità (nel
migliore dei casi) di un ciclista, in un gran nuvolone di benzina al piombo.
Che cosa rimane dei vantaggi dell'auto? Che cosa ne resta quando, come era
inevitabile, la velocità di base sulle autostrade è limitada
precisamente a quella che può raggiungere una vettura da turismo la più lenta?
Gíusta
rivincita delle cose: dopo aver ucciso la città, l'auto uccide l'auto.
Dopo aver promesso a tutti che si sarebbe andati più in fretta,
l'industria automobilistica raggiunge il risultato rigorosamente prevedibile
che tutti vanno più lentamente del più lento di tutti, ad una
velocità determinata dalle semplici leggi della dinamica dei fluidi.
Peggio ancora: inventata per permettere al proprietario di andarsene dovunque,
all'ora e alla-velocità desiderate, l'auto diventa il più
schiavo, aleatorio, imprevedibile e scomodo di tutti quanti i veicoli:
scegliete pure un'ora stramba per partire, non sapete mai quando gli
intasamenti vi consentiranno di arrivare. Siete in balìa della strada
(dell'autostrada) tanto inesorabilmente, quanto il treno delle rotaie. Non
potete, proprio come chi viaggia in ferrovia, fermarvi improvvisamente e
dovete, ancora proprio come in un treno, marciare ad una velocità
stabilita da altri. Insomma, l'auto ha tutti gli svantaggi del treno -
più alcuni altri che le sono specifici: vibrazione, dolori di posizione,
pericoli di colli- sione, necessità di guidare - senza alcuni dei suoi
vantaggi. E tuttavia, mi direte, la
gente non va in treno. Perbacco: e come potrebbe?
Avete già
provato ad andare da Boston a New York in treno? 0 da Yvry a Tréport? 0
da Garches a Fontainbleau? 0 da Colombo a l'Isola-Adam? Avete provato, in
estate, di sabato o di domenica? Ebbene, provateci, coraggio! Costaterete che
il capitalismo automobilistico ha
previsto tutto: nel momento in cui auto stava per uccidere l'auto, esso ha fatto sparire le soluzioni
alternative, in modo da rendere l'auto obbligatoria. Così lo Stato capitalistico ha lasciato che decadessero,
poi ha soppresso le comunicazioni
ferroviarie tra le città, le loro periferie e la loro corona di
zone verdi.
Hanno incontrato
i suoi favori soltanto le comunicazioni interurbane a grande velocità,
che contendono al trasporto aereo la clientela borghese. L'aereotreno che
avrebbe potuto mettere le coste delle
Normandia e i laghi del Morvan alla portata dei parigini che vanno a far merenda
la domenica, servirà a far guadagnare 15 minuti tra Parigi e Pontoise ed
a rovesciare ai suoi capo-linea
più viaggiatori saturi di velocità di quanti ne potranno ricevere i mezzi di trasporto urbano. Questo è
progresso!
La verità
è che nessuno può veramente scegliere: non si è liberi di
avere un'auto o di non averla,
perché l'universo suburbano è organizzato in funzione di questa -
ed anche, sempre di più,
l'universo urbano. Perciò la soluzione rivoluzionaria ideale, che
consisterebbe nella sop-pressione dell'auto in favore della bicicletta, del
tram, del bus e del taxi senza guidatore, non è più applicabile
neppure nelle città autostradali come Los Angeles, Detroit, Houston,
Trappes o anche Bruxelles, modellate per e dall'automobile. Città
scoppiate si estendono lungo strade vuote dove si allineano villette tutte
eguali e dove il paesaggio (il deserto) urbano significa: « Queste strade sono
fatte per andare più velocemente possibile dal luogo di lavoro al proprio
domicilio e viceversa. Ci si passa, non ci si ferma. Ognuno, terminato il
proprio lavoro, non deve fare altro che starsene a casa sua e tutti coloro che
si troveranno per strada, caduta la notte, dovranno essere sospettati di
meditare qualcosa di brutto ». In alcune città americane, del resto, il
fatto di girare a piedi la notte per le strade è considerato una colpa.
Allora la partita
è perduta? No; ma l'alternativa all'auto non può essere che
globale. Infatti, perché la gente possa
rinunciare alla propria vettura non basta affatto offrirle dei mezzi di
trasporto collettivi più comodi: bisogna
che possa non farsi trasportare per niente, sentendosi a casa propria nel
proprio quartiere, nel proprio comune, nella propria città a misura
d'uomo e godendo nell'andare a piedi dal
lavoro al domicilio - a piedi o tutt'al più in bicicletta. Nessun
mezzo di trasporto rapido e d'evasione compenserà mai la disgrazia di
abitare in una città inabitabile, di non essere a casa propria in nessun
posto, di passarvi solo per lavorare
o, al contrario, per isolarsi e dormire.
« Gli utenti -
scrive Illich - spezzeranno le catene del dominio del trasporto quando
ricominceranno ad mare come un territorio la propria isola pedonale ed a temere
di allontanarsene troppo spesso ». Ma, appunto per poter amare « il proprio
territorio », bisognerà che prima questo sia reso abitabile e non circolabile:
che il quartiere o il comune torni ad essere il microcosmo modellato da e per
tutte le attività umane, dove la gente lavori, abiti, si rilassi, si
istruisca, comunichi, si dia da fare e gestisca in comune l'ambiente della
propria vita in comune. A chi gli chiedeva una volta che cosa avrebbe fatto la
gente del proprio tempo dopo la rivoluzione, quando lo spreco capitalistico
sarebbe stato abolito, Marcuse rispose: « Distruggeremo le grandi città
e ne costruiremo di nuove. Questo ci terrà occupati per un po' ». Si
può pensare che queste città nuove saranno delle federazioni di
comuni (o di quartiere), circondate da zone verdi dove i cittadini - e specialmente
gli « scolari » - passeranno molte ore settimanali a far crescere i prodotti
freschi necessari alla loro sussistenza. Per i loro spostamenti giornalieri
essi disporranno di una serie completa di mezzi di trasporto adatti ad una
città media: biciclette municipali, tram o filobus, taxi elettrici senza
guidatore. Per gli spostamenti più grossi in campagna, come pure per il
trasporto degli ospiti, un « pool » di automobili comunali sarà messo a
disposizione nei garages del quartiere. L'auto avrà smesso di essere un
bisogno. E tutto sarà mutato: il mondo, la vita, la gente. E ciò
non sarà accaduto per caso.
Frattanto, che fare per arrivare a questo? Anzitutto, non porre mai il problema
dei trasporti isolatamente; collegarlo sempre al problema della città,
della divisione sociale del lavoro e
della parcellizzazione che questa ha introdotto tra le differenti dimensioni
dell'esistenza: un posto per lavorare, un altro posto per « abitare », un terzo
per approvvigionarsi, un quarto per istruirsi, un quinto per divertirsi. Lo
spezzettamento dello spazio perpetua la disintegrazione dell'uomo iniziata con
la divisione del lavoro in fabbrica. Esso taglia l'individuo a fette, taglia il
suo tempo, la sua vita in pezzi ben divisi, affinché in ognuno di questi
pezzi voi siate dei consumatori passivi in completa balia dei commercianti,
affinché non vi venga mai in mente che lavoro, cultura, comunicazione,
piacere, soddisfazione dei bisogni e vita personale possono e debbono essere
un'unica e medesima cosa: l'unità di una vita sorretta dal tessuto sociale
del comune.
(« Le Sauvage »,
settembre-ottobre1973)