Energia ed equità
Ivan Illich
La prima stesura di questo saggio apparve su “ Le Monde
” all'inizio del 1973. Nell'accettarne il testo il venerando direttore del
giornale suggerì, mentre pranzavamo insieme a Parigi, un unico
cambiamento: gli pareva che un'espressione tecnica poco nota come “ crisi
energetica ” fosse fuori luogo nella frase iniziale d'un articolo ch'egli intendeva
stampare in prima pagina. Riguardando ora il saggio, mi colpisce la
rapidità con cui in appena cinque anni sono cambiati il linguaggio e i
temi; ma altrettanto mi colpisce il lento e però costante aumento di
coloro che si schierano in favore dell'alternativa radicale alla società
industriale, cioè per la modernità conviviale a basso consumo di
energia.
In questo saggio io sostengo che, in determinate circostanze,
una tecnologia incorpora a tal punto i valori della società per la quale
fu inventata, che questi valori finiscono col dominare in ogni società
che poi applichi la medesima tecnologia. La struttura materiale dei mezzi di
produzione può dunque incorporare irrimediabilmente un pregiudizio di
classe. La tecnologia ad alto contenuto di energia, almeno nella sua
applicazione al traffico, ne è un chiaro esempio.
Ovviamente, si tratta di una tesi che mina la
legittimità di quei professionisti che monopolizzano l'esercizio di tali
tecnologie. Essa riesce particolarmente sgradita a coloro che, all'interno
delle professioni, cercano di servire la collettività usando la
fraseologia della lotta di classe col proposito di sostituire ai “ capitalisti
”, che ora governano la politica delle istituzioni, professionisti o anche
profani ma che accettino i criteri di giudizio professionali. Principalmente
per influenza di questi professionisti “ radicali ”la mia tesi, dapprima
accolta come una stranezza, in appena cinque anni è diventata un'eresia
che attira un bombardamento di ingiurie.
La distinzione che qui viene avanzata non è
tuttavia una novità. Io contrappongo degli strumenti che si possono
usare per generare valori d'uso ad altri che non sono invece utilizzabili se
non per produrre valori di scambio, merci. Ultimamente questa distinzione
è stata rimessa in evidenza da una grande varietà di studiosi; di
fatto, l'insistenza sulla necessità di un equilibrio tra strumenti conviviali e strumenti industriali è
l'elemento comune che caratterizza un'emergente concordanza tra i gruppi impegnati
su posizioni politiche radicali. Una magnifica guida bibliografica su questo
argomento è stata pubblicata nel volume Radicai Technology (Londra
e New York 1976) dai redattori di “ Undercurrents ”. Valentino Borremans ha
redatto, ad uso dei bibliotecari, una guida alle pubblicazioni esistenti sugli
strumenti moderni orientati verso la produzione di valori d'uso (Guide to
convivial tools, vol. 130 della serie Special Reports del “ Library Journal ”,
Bowker Company, New York 1979). La tesi specifica sulle soglie di energia
socialmente critiche nel campo del trasporto da me esposta in questo saggio,
è stata sviluppata e documentata dai colleghi Jean-Pierre Dupuy e Jean
Robert in due libri che hanno scritto assieme: La trahison de l'opulence (Parigi 1976) e Les chronophages (Parigi
1978).
La crisi energetica
Da qualche
tempo è venuto di moda parlare di un'imminente crisi energetica. Questo
eufemismo occulta una contraddizione e consacra un'illusione. Maschera la
contraddizione che è implicita nel perseguire assieme l'equità e
lo sviluppo industriale; fa salva l'illusione che la potenza della macchina
possa sostituire indefinitamente il lavoro dell'uomo. Per superare la
contraddizione e dissolvere l'illusione, è urgente chiarire quella
realtà che viene oscurata dal linguaggio della crisi: e la realtà
è che elevati quanta di energia degradano le relazioni sociali
con la stessa ineluttabilità con cui distruggono l'ambiente fisico.
Coloro che parlano di crisi energetica credono in una
particolare idea dell'uomo e continuano a propagarla. Secondo questa
concezione l'uomo nasce, e resta per tutta la vita, dipendente da schiavi che
deve faticosamente imparare a dominare. Se non dispone di prigionieri, ha bisogno
di macchine che compiano gran parte del suo lavoro. Si può misurare il
benessere d'una società, secondo tale dottrina, dal numero degli anni
che i suoi membri hanno trascorso a scuola e dal numero degli schiavi
energetici che hanno così imparato a governare. Questa convinzione
è comune a tutte le contrastanti ideologie economiche attualmente in
voga. E’ messa in pericolo dalle evidenti iniquità, molestie e
impotenze che si manifestano ovunque quando le orde voraci degli schiavi
energetici superano oltre un certo rapporto il numero delle persone. La crisi
energetica concentra le preoccupazioni sulla scarsità del foraggio
disponibile per questi schiavi. Io preferisco chiedermi se gli uomini liberi
hanno bisogno di essi.
Gli indirizzi di politica energetica che verranno
adottati nel decennio in corso determineranno la portata e il carattere delle
relazioni sociali che una società potrà avere nell'anno 2000.
Una politica di bassi consumi di energia permette un'ampia scelta di stili
di vita e di culture. Se invece una società opta per un elevato consumo
di energia, le sue relazioni sociali non potranno che essere determinate
dalla tecnocrazia e saranno degradanti comunque vengano etichettate,
capitaliste o socialiste.
In questo momento le società, specie quelle
povere, sono per lo più ancora libere di seguire nel campo dell'energia
uno di questi tre indirizzi: possono identificare il benessere con un forte
consumo energetico pro capite, o con il conseguimento di un'elevata efficienza
nella trasformazione dell'energia, oppure ancora con il minor uso possibile di
energia meccanica da parte dei membri più potenti della società.
Il primo orientamento punterebbe su una gestione rigida di combustibili rari e
distruttivi a vantaggio dell'industria, mentre il secondo metterebbe l'accento
su una riattrezzatura dell'apparato industriale nell'interesse del risparmio
termodinamico. Questi due primi atteggiamenti comportano ingenti investimenti
pubblici e un accentuato controllo sociale; entrambi giustificano 1'avvento di
un Leviatano computerizzato, e sono oggi contestati da più parti.
La possibilità di una terza scelta è
percepita da ben pochi. Mentre si è cominciato ad accettare, come condizione
per sopravvivere fisicamente, qualche limitazione ecologica al consumo
energetico massimo pro capite, non si arriva ancora a vedere nell'impiego del
minimo possibile di potenza il fondamento di una varietà di ordinamenti
sociali che sarebbero tutti moderni quanto desiderabili. E tuttavia solo
stabilendo un tetto all'uso di energia si possono ottenere rapporti sociali che
siano contraddistinti da alti livelli di equità L'unica scelta attualmente
trascurata è la sola che sia alla portata di ogni nazione. E’ pure la
sola strategia che permetta di usare una procedura politica per porre limiti al
potere anche del più motorizzato dei burocrati. La democrazia
partecipativa postula una tecnologia a basso livello energetico; e solo la
democrazia partecipativa crea le condizioni per una tecnologia razionale.
Ciò che in genere si perde' di vista è che
l'equità e l'energia possono crescere parallelamente solo sino a un
certo punto. Al di sotto di una certa soglia di watt pro capite, i motori
forniscono condizioni migliori per il progresso sociale. Al di sopra di quella
soglia, l'energia cresce a spese dell'equità. Ogni sovrappiù di
energia significa allora un restringimento del controllo sull'energia stessa.
La diffusa convinzione che un'energia pulita e abbondante
sarebbe la panacea di tutti i mali sociali è dovuta a un inganno
politico, secondo cui l'equità e il consumo d'energia possono stare in
correlazione all'infinito, almeno in certe condizioni politiche ideali. Vittime
di questa illusione, tendiamo a ignorare qualunque limite sociale della
crescita del consumo energetico. Ma se hanno ragione gli ecologi ad affermare
che la potenza non metabolica è inquinante, è di fatto
altrettanto inevitabile che, al di là d'una certa soglia, la potenza
meccanica produca guasti. La soglia oltre la quale comincia la disgregazione
sociale indotta da alti quanta di energia non coincide con quella dove
la trasformazione dell'energia comincia a produrre distruzione fisica; espressa
in cavalli-vapore, è sicuramente più bassa.. E’questo il fatto
che va riconosciuto in via teorica perché si possa affrontare sul piano
politico il problema del wattaggio pro capite che la società deve porre
come limite ai propri membri.
Anche ammettendo che una potenza non inquinante sia
ottenibile e in abbondanza, resta il fatto che l'impiego di energia su scala di
massa agisce sulla società al pari di una droga fisicamente innocua ma
assoggettante per la psiche. Una collettività può scegliere tra
il Metadone e la disintossicazione, tra il restare dipendente da un'energia
estranea e il liberarsene con spasmi dolorosi: ma nessuna può avere una
popolazione che sia incatenata a un sempre maggior numero di schiavi energetici
e che nello stesso tempo sia fatta di individui autonomamente attivi.
In altri scritti ho mostrato come, al di là d'un
certo livello di PNL pro capite, il costo del controllo sociale non possa che
aumentare più in fretta del prodotto globale, diventando la principale attività
istituzionale all'interno di una economia. La terapia somministrata dagli
educatori, dagli psichiatri e dagli assistenti sociali non può che convergere
verso i medesimi obiettivi dei pianificatori, dei managers e dei venditori, e
divenire complementare ai servizi degli organi di sicurezza, delle forze
armate e della polizia. Qui vorrei ora indicare uno dei motivi per cui
l'aumento della ricchezza impone un più accentuato controllo sociale.
Sostengo che, al di là di una certa
mediana del livello di energia pro capite, il sistema politico e il
contesto culturale di una società non possono che degradarsi. Una volta
oltrepassato il quantum critico di energia pro capite, è
ineluttabile che le garanzie giuridiche dell'iniziativa personale e concreta
vengano soppiantate dall'educazione agli astratti obiettivi di una burocrazia.
Questo quantum segna il limite dell'ordine sociale.
Intendo qui sostenere che la tecnocrazia prevale necessariamente
non appena il rapporto tra potenza meccanica ed energia metabolica oltrepassa
una soglia precisa e riconoscibile. L'ordine di grandezza entro cui si trova
questa soglia è in buona parte indipendente dal livello della
tecnologia applicata; tuttavia, nei paesi ricchi e in quelli medio-ricchi, la
sua stessa esistenza è finita nel punto cieco dell'immaginazione
sociale. Tanto gli Stati Uniti quanto il Messico hanno superato questa linea di
demarcazione; in entrambi i paesi, ad ogni nuova aggiunta di energia si aggravano
l'ineguaglianza, l'inefficienza e l'impotenza delle persone. Benché un
paese abbia un reddito pro capite di soli 500 dollari e l'altro di oltre 5000,
gli enormi interessi costituiti dell’infrastruttura industriale spingono
entrambi ad accrescere sempre più il consumo di energia. Una conseguenza
è che sia gli ideologi statunitensi sia quelli messicani chiamano “
crisi energetica ” la loro frustrazione, ed entrambi i paesi non riescono a
vedere che la minaccia di collasso sociale non deriva né da carenza di
combustibile né dal modo dilapidatorio, inquinante e irrazionale con
cui viene impiegata la potenza disponibile, bensì dal continuo sforzo
dell'industria rivolto a ingozzare la società con quantitativi di
energia che inevitabilmente degradano, depauperano e frustrano la maggioranza
della gente.
Un popolo può essere altrettanto pericolosamente
ipernutrito dalla potenza dei propri strumenti quanto dal contenuto calorico
dei propri cibi, ma è assai più difficile riconoscere un debole
nazionale per i watt che non per una dieta malsana. Il wattaggio pro capite che
segna il punto critico per il benessere sociale sta entro un ordine di
grandezza che è assai superiore alla quantità di cavalli-vapore
nota ai quattro quinti dell'umanità e assai inferiore alla potenza
controllata da chi guidi una Volkswagen. Non se ne rende conto né il
sottoconsumatore né il sovraconsumatore. Né l'uno né
l'altro è disposto a guardare in faccia la realtà Per quanto
riguarda il primitivo, l'eliminazione della schiavitù e della fatica
più ingrata dipende dall'introduzione di un'adeguata tecnologia moderna,
mentre quanto al ricco l'evitare una degradazione ancor più spaventosa
dipende dall'efficace riconoscimento di una soglia nel consumo energetico
oltre la quale i processi tecnici cominciano a determinare le relazioni sociali.
Sia dal punto di vista biologico sia da quello sociale, le calorie sono
benefiche solo fin quando rimangono entro lo stretto margine che separa
l'abbastanza dal troppo.
La cosiddetta crisi energetica è dunque un
concetto politicamente ambiguo. L'interesse pubblico ai quanta di
energia e alla distribuzione del controllo sul loro impiego può portare
in due direzioni opposte. Da una parte si possono porre domande suscettibili di
aprire la via a una ricostruzione politica sbloccando la ricerca di un'economia
post-industriale ad alta intensità di lavoro, a basso contenuto di
energia e ad alto grado di equità. Dall'altra parte l'isterico affanno
per l'alimentazione delle macchine può dare un ulteriore impulso
all'attuale sviluppo istituzionale a forte intensità di capitale e
portarci al di là dell'ultima curva che ci separa da un Armageddon iperindustriale.
La ricostruzione politica presuppone il riconoscimento del fatto che esistono
dei quanta pro capite critici, superati i quali l'energia non è
più controllabile per via politica. Dall'altro canto, le restrizioni
ecologiche al consumo energetico globale imposte da pianificatori di
mentalità industriale inclini a mantenere la produzione delle industrie
a un ipotetico livello massimo non potrebbero che sfociare nell'imposizione
d'una gigantesca camicia di forza all'intera società.
I paesi ricchi come gli Stati Uniti, il Giappone o la
Francia potranno forse non arrivare mai al punto di soffocare tra i propri
rifiuti, ma solo perché già prima queste società saranno
sprofondate in un coma dell'energia socioculturale. Paesi come l'India, la
Birmania e, almeno ancora per qualche tempo, la Cina hanno invece tuttora una
potenza muscolare sufficiente a prevenire un infarto energetico; sarebbero in
condizione di scegliere, adesso, di rimanere entro quei limiti ai quali i
ricchi saranno costretti a tornare passando per la perdita completa delle loro
libertà.
Scegliere un'economia a contenuto minimo di energia
costringe il povero a rinunciare alle attese fantastiche e il ricco a
riconoscere nei propri interessi costituiti una passività tremenda.
Entrambi devono rifiutare l'immagine funesta dell'uomo come schiavista,
attualmente promossa da una fame di maggiori risorse energetiche che è
stimolata da motivi ideologici. Nei paesi giunti all'opulenza grazie allo
sviluppo industriale, la crisi energetica serve da pretesto per aumentare il
prelievo fiscale necessario per sostituire nuovi procedimenti industriali,
più “ razionali ”e socialmente ancor più micidiali, a quelli resi
obsoleti da una superespansione inefficiente. Per i dirigenti dei popoli non
ancora dominati dal medesimo processo di industrializzazione, la crisi
energetica rappresenta un imperativo storico che ordina di accentrare
la produzione, l'inquinamento e il loro controllo, in un estremo tentativo di
raggiungere le nazioni più potenti. Esportando la loro crisi e
predicando il nuovo verbo del culto puritano dell'energia, i ricchi arrecano
ai poveri ancora più danno di quanto ne arrecassero vendendogli i
prodotti delle loro vecchie fabbriche. Nel momento in cui un paese povero sposa
l'idea che una maggiore quantità di energia più attentamente
gestita darà sempre come risultato un maggior volume di beni per
più persone, quel paese si chiude nella gabbia dell'asservimento al
massimo sviluppo del prodotto industriale. E’ inevitabile che i poveri perdano
la possibilità di optare per una tecnologia razionale una volta deciso
di modernizzare la loro povertà accrescendo la propria dipendenza
dall'energia. Inevitabilmente i poveri si precludono qualunque tecnologia
liberatrice e qualunque politica partecipativa allorché, insieme al
massimo possibile di impieghi energetici, accettano e non possono non accettare
il massimo possibile di controllo sociale.
La crisi energetica non si può superare con un
sovrappiù di energia. Si può soltanto dissolverla, insieme con
l'illusione che fa dipendere il benessere dal numero di schiavi energetici che
un uomo ha sotto di sé. A questo scopo, è necessario identificare
le soglie al di là delle quali l'energia produce guasti, e farlo
attraverso un processo politico che impegni tutta la comunità nella
ricerca di tali limiti. Poiché questo tipo di ricerca va in senso opposto a quella
che viene svolta oggi dagli esperti e per conto delle istituzioni, io
continuerò a chiamarla contro-ricerca. Essa si compone di tre fasi: in
primo luogo bisogna riconoscere sul piano teorico come imperativo sociale la
necessità di porre dei limiti al consumo di energia pro capite; quindi
bisogna individuare la fascia entro la quale potrebbe trovarsi la grandezza
critica; infine bisogna che ciascuna comunità metta in luce la somma di
iniquità, di fastidio e di condizionamento che i suoi membri sono
portati a tollerare per avere la soddisfazione di idolatrare potenti congegni
e prender parte ai relativi riti diretti dai professionisti che ne regolano il
funzionamento.
La necessità di una ricerca politica sui quanta
di energia socialmente ottimali è illustrabile in maniera chiara e
succinta esaminando il traffico moderno. Gli Stati Uniti investono nei veicoli
tra il 25 e il 45 per cento (a seconda dei criteri di calcolo) di tutta
l'energia di cui dispongono: per fabbricarli, per farli muovere e per
assicurare loro un diritto di passaggio quando scorrono, quando volano e quando
sono lasciati in sosta. La maggior parte di questa energia serve a spostare
persone immobilizzate con delle cinghie. Al solo scopo di trasportare gente,
250 milioni di americani destinano più combustibile di quanto ne impiegano
1,3 miliardi di cinesi e di indiani per tutti i loro scopi. Quasi tutto questo
combustibile viene bruciato per la danza della pioggia di un'accelerazione
dissipatrice di tempo. I paesi poveri spendono meno energia pro capite, ma la
percentuale dell'energia assorbita dal traffico in Messico o in Perù
è probabilmente superiore a quella degli Stati Uniti, e ne beneficia
una fetta più piccola della popolazione. Le dimensioni di questa
faccenda permettono di dimostrare in maniera tanto facile quanto significativa,
attraverso l'esempio della mobilità personale, come esistano dei quanta
di energia socialmente critici.
Nella circolazione, l'energia impiegata in una determinata
unità di tempo (potenza) si traduce in velocità. In questo caso,
il quantum critico si configurerà come limite della
velocità. Ovunque sia stato oltrepassato questo limite, è emerso
il disegno essenziale della degradazione sociale dovuta a elevati quanta di
energia. Ogni volta che un mezzo pubblico ha superato i 25 chilometri orari,
è diminuita l'equità mentre aumentava la penuria sia di tempo che
di spazio. Il trasporto a motore ha monopolizzato il traffico, bloccando il
movimento alimentato dall'energia corporea (che chiamerò “ transito
”).In tutti i paesi occidentali, nel giro di cinquant'anni dall'inaugurazione
della prima ferrovia, il numero dei chilometri/passeggero coperti con tutti i
mezzi di trasporto si è moltiplicato per cento. Quando il rapporto tra
le rispettive erogazioni di potenza ha oltrepassato un certo valore, i trasformatori
meccanici di combustibili minerali hanno tolto alla gente la possibilità
di usare la propria energia metabolica, costringendola a diventare
consumatrice forzata di mezzi di trasporto. A questo effetto esercitato dalla
velocità sull'autonomia degli individui, contribuiscono solo marginalmente
le caratteristiche tecniche dei veicoli a motore oppure le persone o gli enti
che di fronte alla legge risultano responsabili delle aviolinee, delle
ferrovie, degli autobus o delle automobili: è l'alta velocità il
fattore critico che rende socialmente distruttivo il trasporto. Una vera scelta
tra indirizzi pratici e di relazioni sociali desiderabili è possibile
solo laddove la velocità sia sottoposta a restrizioni. La democrazia
partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini
liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive
solo alla velocità di una bicicletta1.
1 Parlo del traffico al fine di illustrare il più
generale tema dell’impiego socialmente ottimale dell’energia, e mi limito alla
locomozione delle persone, comprendendo i loro bagagli personali e il
combustibile, i materiali e le attrezzature occorrenti per il veicolo e per la
strada. Mi astengo volutamente dal considerare altri due tipi di traffico:
quello delle merci e quello dei messaggi. Per entrambi si potrebbe fare un
discorso analogo, che però esigerebbe un’argomentazione diversa,
sicché la lascio da parte per un’altra occasione. (Questa nota figurava
nella prima edizione del presente saggio: In quel periodo stavo preparando due
studi che dovevano integrarlo: uno sulla storia del servizio postale, l’altro
su equipaggi e carichi nella storia. Rinunciai a tutti e due i progetti per
scrivere Nemesi medica.)
L'industrializzazione del traffico
Prima di
esaminare come l'energia viene impiegata per lo spostamento delle persone,
occorre distinguere formalmente quelle che sono le due componenti del
traffico: il transito e il trasporto. Intendo per traffico qualsiasi
spostamento delle persone da un luogo all'altro quando sono fuori casa; per transito,
come già accennato, intendo quegli spostamenti che fanno uso
dell'energia metabolica umana, e per trasporto quelli che si avvalgono
di altre fonti di energia. Per l'avvenire queste fonti saranno per lo
più motori, dato che gli animali fanno ormai a gara con gli uomini nel
morir di fame in un mondo sovrappopolato, a meno che, come l'asino e il
cammello, non si nutrano di cardi.
Appena si arriva a dipendere dal trasporto, non solo per
i viaggi che durano parecchi giorni ma per gli spostamenti quotidiani,
diventano acutamente palesi le contraddizioni tra la giustizia sociale e la
potenza motorizzata,. tra il movimento efficace e l'alta velocità, tra
la libertà personale e l'itinerario preordinato. Là dipendenza
forzata dalle macchine automobili nega allora a una collettività di persone
semoventi proprio quei valori che i potenziati mezzi di trasporto dovrebbero in
teoria garantire.
La gente si muove
bene con le proprie gambe. Questo mezzo primitivo per spostarsi
apparirà, a un’analisi appena attenta, assai efficace se si fa un confronto
con la sorte di chi vive nelle città moderne o nelle campagne industrializzate.
E riuscirà particolarmente suggestivo quando ci si renda conto che
l’americano d’oggi, in media, percorre a piedi - per lo più in tunnel,
corridoi, parcheggi e supermercati tanti
chilometri quanti ne percorrevano i suoi antenati. Coloro che vanno a piedi
sono più o meno uguali. Chi dipende esclusivamente dalle proprie gambe,
si sposta secondo lo stimolo del momento, a una velocità media di
cinque o sei chilometri l'ora, in qualunque direzione e per andare in qualsiasi
posto che non gli sia legalmente o materialmente precluso. Ci si aspetterebbe
che ogni miglioramento di tale mobilità connaturata prodotto da una
nuova tecnologia del trasporto salvaguardi quei valori e ne aggiunga degli
altri, come un maggior raggio d'azione, risparmio di tempo, comodità,
maggiori possibilità per i menomati. Sinora non è questo
ciò che è accaduto. Anzi, lo sviluppo dell'industria del
trasporto ha avuto dappertutto l'effetto opposto. Questa industria, da quando
le sue macchine hanno potuto mettere dietro ogni passeggero più d'un
certo numero di cavalli-vapore, ha diminuito l'eguaglianza tra gli uomini, ha
vincolato la loro mobilità a una rete di percorsi disegnata con criteri
industriali e ha creato una penuria di tempo d'una gravità senza
precedenti. Appena la velocità dei loro veicoli varca una certa soglia,
i cittadini diventano consumatori di trasporto nel giro dell'oca quotidiano
che li riporta a casa, un circuito che gli uffici di statistica chiamano “
spostamento ” per distinguerlo dal vero “ viaggio ” che si ha quando il
cittadino, uscendo di casa, si munisce d'uno spazzolino da denti.
Alimentare con più energia il sistema di
trasporto vuol dire che ogni giorno un numero maggiore di persone si muove
più velocemente su distanze superiori. Il raggio quotidiano di ognuno si
estende a scapito della possibilità di imbattersi in un amico o di
passare per il parco andando al lavoro. Si creano punte estreme di privilegio
con l'asservimento generale. Una élite accumula distanze incalcolabili
in tutta una vita di viaggi circondati da premure, mentre la maggioranza
spende una fetta sempre maggiore della propria esistenza in spostamenti non
voluti. Alcune poche persone viaggiano su tappeti magici fra punti remoti che
la loro effimera presenza fa apparire rari e insieme allettanti, mentre tutti
gli altri sono costretti a spostarsi sempre di più e sempre più
in fretta sui medesimi tragitti e a perdere sempre più tempo per prepararsi
a questi spostamenti e poi per riaversene.
Negli Stati Uniti i quattro quinti delle ore/persona passate
sulle strade sono di gente che fa la spola tra casa, posto di lavoro e
supermercato e che non sale quasi mai su un aereo; mentre i quattro quinti
delle miglia percorse in volo per recarsi a congressi e in luoghi di
villeggiatura sono coperti ogni anno da un costante 1,5 per cento della
popolazione, di solito benestanti o gente che si tratta bene per
condizionamento professionale. Quanto più veloce è il veicolo,
tanto più consistente è il sussidio che riceve da una tassazione
regressiva. Appena lo 0,2 per cento della popolazione degli Stati Uniti
può decidere per proprio conto di viaggiare in aereo più di una
volta all'anno, e pochi altri paesi possono permettersi un jet set così
numeroso.
Sia lo schiavo degli spostamenti quotidiani sia il viaggiatore
impenitente si trovano a dipendere dal trasporto: né l'uno né
l'altro possono farne a meno. Un volo occasionale ad Acapulco o a un congresso
di partito fa credere al passeggero ordinario di essere finalmente entrato nel
mondo ristretto di coloro che si muovono ad alta velocità. La
possibilità occasionale di trascorrere qualche ora legato con una
cinghia al proprio sedile su un veicolo ultrapotente fa di lui un complice
della distorsione dello spazio umano e lo induce ad accettare che la geografia
del suo paese venga modellata in funzione dei veicoli anziché delle
persone. L'uomo si è evoluto fisicamente e culturalmente insieme con la
sua nicchia cosmica. Ciò che per gli animali non è che
l'ambiente, egli ha imparato a trasformarlo in propria dimora. La sua
autocoscienza richiede il complemento di uno spazio vitale e di un tempo di
vita integrati dal ritmo col quale egli si muove. Se questo rapporto viene
determinato dalla velocità dei veicoli anziché dal movimento
delle persone, l'uomo-architetto si riduce al livello di un mero pendolare.
L'americano tipo dedica ogni anno alla propria auto
più di 1600 ore: ci sta seduto, in marcia e in sosta; la parcheggia e va
a prenderla; si guadagna i soldi occorrenti per l'anticipo sul prezzo
d'acquisto e per le rate mensili; lavora per pagare la benzina, i pedaggi
dell'autostrada, l'assicurazione, il bollo, le multe. Ogni giorno passa
quattro delle sue sedici ore di veglia o per la strada o occupato a mettere
insieme i mezzi che l'auto richiede. E questa cifra non comprende il tempo
speso in altre occupazioni imposte dal trasporto: quello che si trascorre in
ospedale, in tribunale e in garage; quello che si passa guardando alla
televisione i caroselli sulle automobili, scorrendo pubblicazioni
specializzate, partecipando a riunioni per l'educazione del consumatore in modo
da saper fare un acquisto migliore alla prossima occasione. L'americano tipo
investe queste 1600 ore per fare circa 12.000 chilometri: cioè appena
sette chilometri e mezzo per ogni ora. Nei paesi dove non esiste un'industria
del trasporto, la gente riesce a ottenere lo stesso risultato andando a piedi
dovunque voglia, e il traffico assorbe dal 3 all'8 per cento del tempo sociale,
anziché il 28 per cento. Ciò che distingue il traffico dei paesi
ricchi da quello dei paesi poveri, per quanto riguarda i più, non
è un maggior chilometraggio per ogni ora di vita, ma l'obbligo di consumare
in forti dosi l'energia confezionata e disegualmente distribuita dall'industria
del trasporto.
L'immaginazione intontita dalla velocità
Superata
una certa soglia di consumo d'energia, l'industria del trasporto detta la
configurazione dello spazio sociale. Le autostrade si espandono, ficcando
cunei tra i vicini e spostando i campi oltre la distanza che un contadino
può percorrere a piedi. Le ambulanze spingono le cliniche al di
là dei pochi chilometri in cui è possibile portare in braccio un
bambino malato. Il medico non viene più a casa perché i veicoli
hanno fatto dell'ospedale il posto più giusto per stare malati. Basta
che dei camion pesanti si arrampichino fino a un villaggio delle Ande
perché sparisca una parte del mercato locale. Poi, quando nella plaza
arriva la scuola media insieme con la strada asfaltata, sono sempre
più numerosi i giovani che si trasferiscono in città,
finché non rimane più una sola famiglia che non sogni di
ricongiungersi con qualcuno, laggiù, a centinaia di chilometri, lungo
la costa.
A velocità uguali corrispondono effetti
ugualmente distorsivi sulla percezione dello spazio, del tempo e delle
potenzialità personali, nei paesi ricchi come in quelli poveri, per
differenti che possano essere le apparenze superficiali. Dappertutto
l'industria del trasporto foggia un nuovo tipo d'uomo adatto alla nuova
geografia e ai nuovi tempi che essa fabbrica. La differenza tra il Guatemala e
il Kansas è che nell'America centrale alcune province non hanno ancora
preso contatto con i veicoli e perciò non sono ancora degradate
dall'asservimento a essi.
Il prodotto dell'industria del trasporto è il passeggero
abituale. Costui è stato catapultato fuori del mondo in cui la gente
continua a muoversi da sé, e ha perso la sensazione di stare al centro
del proprio mondo. Il passeggero abituale è conscio dell'esasperante
mancanza di tempo provocata dal quotidiano ricorso all'auto, al treno,
all'autobus, alla metropolitana e all'ascensore, che lo costringono a
percorrere in media trenta e più chilometri al giorno, spesso
intersecando il proprio cammino, entro un raggio di otto chilometri. E’ stato
sollevato per aria. Sia che vada in metropolitana o in jet, si sente sempre
più lento e più povero di qualcun altro e pensa con rabbia ai pochi
privilegiati che possono prendere delle scorciatoie riuscendo così a
non subire la frustrazioni del traffico. Se è bloccato dagli orari del
suo treno per pendolari, sogna un'automobile. Se è in automobile,
sfinito dall'ora di punta, invidia il capitalista di velocità che corre
contromano. Se deve pagarsi l'auto di tasca propria, non riesce a dimenticare
che i comandanti delle flotte aziendali girano alla ditta le fatture della
benzina e mettono sul conto spese le macchine prese a nolo. Il passeggero abituale
è il più esasperato di tutti dalla crescente ineguaglianza,
dalla penuria di tempo e dall'impotenza personale, ma non vede altra via
d'uscita da questo pasticcio che non sia chiedere una dose maggiore della
medesima droga: cioè più traffico con mezzi di trasporto. Aspetta
la sua salvezza da innovazioni tecniche nella concezione dei veicoli e delle
strade e da una diversa regolamentazione degli orari; oppure spera in una
rivoluzione che crei un sistema di trasporto veloce di massa gestito dalla collettività.
Né in un caso né nell'altro calcola quanto costi farsi portare in
un futuro migliore. Dimentica che sarà sempre lui a pagare il conto,
sotto forma di tasse o di tariffe. Trascura i costi occulti che comporta la
sostituzione delle auto private con trasporti pubblici egualmente rapidi.
Il passeggero abituale non riesce ad afferrare la follia
di un traffico basato in misura preponderante sul trasporto. Le sue percezioni
ereditarie dello spazio, del tempo e del ritmo personale sono state deformate dall'industria.
Ha perso la capacità di concepire se stesso in un ruolo che non sia
quello del passeggero. Drogato dal trasporto, non ha più coscienza dei
poteri fisici, psichici e sociali che i piedi di un uomo posseggono. E’
arrivato a prendere per un territorio quel paesaggio sfuggente attraverso il
quale viene precipitato. Non è più capace di crearsi un proprio
dominio, di dargli la propria impronta e di affermarvi la propria
sovranità. Non ha più fiducia nel suo potere di ammettere altri
alla propria presenza e di dividere consapevolmente con loro lo spazio. Non sa
più affrontare da solo le distanze. Lasciato a se stesso, si sente
immobile.
Per sentirsi sicuro in uno strano mondo in cui tanto le liaisons
quanto la solitudine sono prodotti dei mezzi di trasporto, il passeggero
abituale deve adottare una nuova serie di credenze e di aspettative.
“Incontrarsi” significa per lui essere collegati dai veicoli. Giunge a credere
che il potere politico discenda dalla portata di un sistema di trasporto o, in
sua assenza, sia il risultato dell'accesso allo schermo televisivo. Ritiene che
la libertà di movimento consista in un diritto alla propulsione. Crede
che il livello della democrazia sia in correlazione con la potenza dei sistemi
di trasporto e di comunicazione. Non ha più fede nel potere politico
delle gambe e della lingua. Di conseguenza non vuol essere maggiormente libero
come cittadino, ma essere meglio servito come cliente. Non tiene alla propria
libertà di muoversi e di parlare alla gente, ma al suo diritto di essere
caricato e di essere informato dai media. Vuole un prodotto migliore,
non vuole liberarsi dall'asservimento ai prodotti. E’ dunque indispensabile
ch'egli riesca a comprendere che l'accelerazione da lui ambita è
frustrante e non può che portare a un ulteriore declino
dell'equità, del tempo libero e dell'autonomia.
Trasferimento netto di vita
La velocità incontrollata è
costosa, e sono sempre meno quelli che possono permettersela. Ad ogni
incremento della velocità di un veicolo cresce il costo della
propulsione e della rete stradale e - cosa più drammatica di tutte -
aumenta lo spazio che il veicolo divora col suo movimento. Oltrepassata una
certa soglia nel consumo di energia per i passeggeri più veloci, si
crea una struttura di classe, su scala mondiale, di capitalisti di
velocità. Il valore di scambio del tempo diviene dominante, rispecchiandosi
anche nella lingua: il tempo si spende, si risparmia, s'investe, si
spreca, s'impiega. Quando una società segna un prezzo sul tempo,
tra l'equità e la velocità veicolare si stabilisce una
correlazione inversa.
L'alta velocità capitalizza il tempo di poche
persone a un tasso spropositato, ma paradossalmente lo fa deprezzando il tempo
di tutti gli altri. A Bombay solo pochissime persone posseggono un'auto; esse
possono raggiungere in una mattinata la capitale d'una provincia e fare questo
tragitto una volta la settimana. Due generazioni addietro ci sarebbe voluta
un'intera settimana per lo stesso viaggio, ch'era possibile solo una volta
l'anno. Adesso spendono una quantità maggiore di tempo per un maggior
numero di spostamenti. Ma quelle stesse poche persone, con le loro auto,
scompigliano il flusso di traffico delle migliaia di biciclette e di taxi a
pedali che circolano nel centro della città a una velocità
effettiva tuttora superiore a quella possibile nel centro di Parigi, Londra o
New York. La spesa complessiva di tempo assorbita dal trasporto in una
società cresce assai più in fretta del risparmio di tempo
conseguito da un'esigua minoranza nelle sue veloci escursioni. Il traffico
aumenta all'infinito quando diventano disponibili mezzi di trasporto ad alta
velocità. Al di là d'una soglia critica, l'output del complesso
industriale costituitosi per spostare la gente costa alla società
più tempo di quello che fa risparmiare. L'utilità marginale
dell'aumento di velocità d'un piccolo numero di persone ha come prezzo
la crescente disutilità marginale di questa accelerazione per la grande
maggioranza.
Oltre una
velocità critica, nessuno può risparmiare tempo senza
costringere altri a perderlo. Colui che pretende un posto su un veicolo
più rapido sostiene di fatto che il proprio tempo vale più di
quello del passeggero di un veicolo più lento. Oltre una certa
velocità, i passeggeri diventano consumatori del tempo altrui, e per
mezzo dei veicoli più veloci si effettua un trasferimento netto di tempo
di vita. L'entità di tale trasferimento si misura in quanta di
velocità Questa corsa al tempo depreda coloro che rimangono indietro e,
poiché questi sono la maggioranza, pone problemi etici d'ordine
più generale della lotteria che distribuisce dialisi renali o trapianti
di organi.
Oltre una certa velocità i veicoli a motore
creano distanze che soltanto loro possono ridurre. Creano distanze per tutti,
poi le riducono soltanto per pochi. Una nuova strada aperta nel deserto
brasiliano mette la città a portata di vista, ma non di mano, della
maggioranza dei contadini poveri. La nuova superstrada ingrandisce Chicago, ma
risucchia chi è ben carrozzato lontano dal centro, che degenera in
ghetto.
Contrariamente a quanto spesso si afferma, la
velocità dell'uomo è rimasta invariata dall'età di Ciro
fino a quella del vapore. Con qualunque mezzo venisse portato il messaggio, le
notizie non potevano viaggiare a più di centosettanta chilometri al
giorno. Né i corrieri inca, né le galee veneziane, né i
cavalieri persiani, né i servizi di diligenza istituiti sotto Luigi XIV
superarono mai questa barriera. I soldati, gli esploratori, i mercanti, i
pellegrini percorrevano al massimo trenta chilometri al giorno. Per dirla con
Valéry, Napoleone era ancora costretto al passo lento di Cesare: Napoléon
va à la méme lenteur que César. L'imperatore sapeva
che on mesure la prospérité publique aux comptes des
diligences (“la prosperità pubblica si misura dagli incassi delle
diligenze ”), ma poteva fare ben poco per sveltirle. Per andare da Parigi a
Tolosa ci volevano ai tempi dei romani circa duecento ore; nel 1740, prima che
si aprissero le nuove strade regie, la diligenza ce ne metteva ancora 158.Solo
l'Ottocento accelerò l'uomo. Nel 1830 la durata del viaggio era scesa a
110 ore, ma con un nuovo costo: in quello stesso anno si ribaltarono in
Francia 4150 diligenze, causando la morte di più di mille persone. Poi
la ferrovia provocò un brusco mutamento. Nel 1855 Napoleone III
sosteneva di aver toccato i 96 chilometri orari viaggiando in treno da Parigi a
Marsiglia. Nel giro di una generazione la distanza media percorsa annualmente
dai francesi aumentò di centotrenta volte, e la rete ferroviaria
britannica raggiunse la sua massima espansione. I treni per passeggeri
toccarono il costo ottimale, calcolato in termini di tempo dedicato al loro
impiego e alla loro manutenzione.
Con l'ulteriore accelerazione, il trasporto
cominciò a dettar legge al traffico mentre la velocità erigeva
una gerarchia di destinazioni. A questo punto, ogni gruppo di destinazioni
corrisponde a uno specifico livello di velocità e definisce una certa
classe di passeggeri. Ogni circuito di punti terminali degrada quelli che
vengono raggiunti a una media oraria inferiore. Coloro che devono spostarsi
con forza propria si trovano riclassificati come emarginati e sottosviluppati.
Dimmi a che velocità vai e ti dirò chi sei. Se puoi accaparrare
per te le tasse che servono ad alimentare il Concorde, sei sicuramente al
vertice.
Nelle ultime due generazioni, il veicolo è
diventato simbolo della carriera fatta, come la scuola è diventata
simbolo del vantaggio di partenza. Ad ogni nuovo livello, la concentrazione di potenza
ha bisogno di trovare l'argomento che la razionalizzi. Così, per
esempio, la ragione che di solito viene data a giustificazione del denaro pubblico
che si spende per far percorrere a un uomo un maggiore chilometraggio annuo in
minor tempo è l'ancor più grande investimento che si è
già fatto per tenerlo a scuola un maggior numero di anni. Il suo valore
presunto come strumento produttivo ad alto contenuto di capitale determina la
tariffa alla quale viene trasportato. Oltre alla “ buona istruzione ”, anche
altre etichette ideologiche possono aprire l'accesso a lussi pagati da altri.
Se è vero che il Pensiero del Presidente Mao ha ora bisogno di aerei a
reazione per diffondersi in Cina, questo può voler dire soltanto che per
alimentare ciò che è diventata la sua rivoluzione sono necessarie
due classi, una delle quali vive nella geografia delle masse, l'altra in quella
dei quadri. La soppressione dei livelli di velocità intermedi ha certo
reso più efficiente e razionale la concentrazione del potere nella
Repubblica popolare, ma sottolinea anche che il tempo dell'uomo che si fa
portare dal bufalo ha un valore diverso da quello dell'uomo che si fa
trasportare in jet. Inevitabilmente, l'accelerazione concentra i cavalli-vapore
sotto le natiche di alcuni pochi e aggrava la crescente penuria di tempo di
cui soffre la massa degli altri aggiungendovi la sensazione di stare a
rimorchio.
In generale, il fatto che la società industriale
distribuisca in maniera ineguale i suoi privilegi viene difeso e dichiarato necessario
con un ragionamento a due facce, la cui ipocrisia è messa apertamente in
luce dall'esempio dell'accelerazione. Per un verso il privilegio viene accettato
come presupposto indispensabile per determinare un miglioramento globale d'una
popolazione in aumento, per un altro verso lo si esalta come strumento per
elevare il tenore di vita di una minoranza indigente. Come si è visto,
alla lunga l'accelerazione del trasporto non fa né l'una né
l'altra cosa: genera soltanto una domanda universale di mezzi di trasporto
motorizzati e crea distanze prima inimmaginabili tra i vari livelli di
privilegio. Oltre un certo punto, più energia significa meno
equità.
L'inefficacia dell'accelerazione
Non
bisogna perdere di vista il fatto che le velocità di punta accessibili a
pochi vengono pagate a un prezzo ben diverso da quello delle velocità
elevate accessibili a tutti. La classificazione sociale basata sui livelli di
velocità impone un trasferimento netto di potere: i poveri lavorano e
pagano per restare indietro. Ma se le classi medie di una società
velocistica possono anche far finta di non vedere questa discriminazione, non
dovrebbero però ignorare le crescenti disutilità marginali del
trasporto e la loro stessa perdita di tempo libero. Le grandi velocità
per tutti comportano che ognuno abbia sempre meno tempo per sé man mano
che l'intera società dedica allo spostamento della gente una quota
sempre più grossa della propria disponibilità di tempo. I
veicoli che corrono a una velocità superiore a quella critica non
soltanto tendono a imporre ineguaglianza, ma inevitabilmente creano anche
un'industria al servizio di se stessa, che nasconde un sistema di locomozione
inefficiente sotto una maschera di raffinatezza tecnologica. Io intendo
dimostrare che porre un limite alla velocità non è solo
necessario per salvaguardare l'equità: è altresì una
condizione per accrescere la distanza globale percorsa entro una società
diminuendo contemporaneamente il tempo complessivo che il trasporto richiede.
Non si sa molto circa l'impatto dei veicoli sul
monte-ore di cui dispongono quotidianamente gli individui e le società1.Da
studi dedicati ai trasporti si ricavano dati statistici sul costo
tempo/chilometro, ovvero sul valore del tempo espresso in dollari o in lunghezza
dei tragitti. Ma statistiche di questo tipo non ci dicono niente riguardo ai
costi occulti del trasporto: i frammenti di esistenza rosicchiati dal traffico,
lo spazio divorato dai veicoli, la moltiplicazione di spostamenti resa
necessaria dalla presenza dei veicoli, il tempo che va perso, direttamente o
indirettamente, nel prepararsi alla locomozione. Manca inoltre una valutazione
di certi costi ancor più reconditi, quali i fitti relativamente
più alti che si pagano per risiedere in zone vicine alle correnti di
traffico, o le spese in più che si sopportano per difendere queste zone
dal rumore, dall'inquinamento e dai rischi per l'incolumità personale
che hanno origine nei veicoli. La mancanza di una contabilità del tempo
sociale non deve però farci credere che tale conto sia impossibile, e
neanche deve impedirci di trarre conclusioni da quel poco che sappiamo.
Dalle limitate informazioni che abbiamo potuto mettere
insieme risulta che in ogni parte del mondo, non appena la velocità di
certi veicoli ha superato la barriera dei 25 chilometri orari, ha cominciato ad
aggravarsi la penuria di tempo legata al traffico. Una volta che l'industria ha
raggiunto questa soglia critica di produzione pro capite, il trasporto ha fatto
dell'uomo il fantasma che conosciamo: un assente che giorno dopo giorno si
sforza di raggiungere una destinazione che gli è inaccessibile con i
soli suoi mezzi fisici. Oggi la gente dedica una parte cospicua della propria
giornata lavorativa a guadagnarsi il denaro senza il quale non potrebbe neanche
recarsi sul lavoro. Il tempo che una società spende per il trasporto
aumenta in misura direttamente proporzionale alla velocità dei mezzi
pubblici più rapidi. Il Giappone supera ormai gli Stati Uniti in tutti
e due i campi. Il tempo di vita si riempie di attività generate dal
traffico non appena i veicoli abbattono la barriera che protegge la gente dalla
dislocazione e lo spazio dalla distorsione.
Che poi il veicolo che sfreccia sulla superstrada appartenga
allo Stato o a un privato non fa grande differenza: comunque ogni ulteriore
aumento di velocità significa un'altra frazione di tempo libero che va
perduta e un sovrappiù di programmazione che si deve subire. Gli autobus
consumano un terzo del carburante che le automobili bruciano per portare una
sola persona per un dato tratto; le ferrovie suburbane sono fino a dieci volte
più efficienti delle auto. Autobus e treni potrebbero diventare ancora
più efficienti e meno inquinanti; là dove appartengono alla
collettività e sono amministrati razionalmente, offrono in genere un
servizio, quanto a orari e percorsi, che riduce considerevolmente le
sperequazioni create dalla gestione privata o incompetente del trasporto. Ma
fin quando un qualunque sistema di trasporto s'imporrà alla gente in
forza di velocità di punta sottratte a ogni regolamentazione politica,
alla collettività non resterà altra scelta fuorché
spendere più tempo per pagare a più persone la possibilità
d'essere portate da una stazione all'altra, o pagare meno tasse sicché
ancor meno persone possano spostarsi in molto meno tempo su distanze molto
maggiori di quanto non sia consentito alla maggioranza. L'ordine di grandezza
della velocità di punta ammessa in un sistema di trasporto determina la
quota del tempo sociale che l'intera collettività spende per il
traffico.
1Dall'epoca della
pubblicazione di questo scritto (1973), sono state fatte e pubblicate molte
ricerche sull'argomento; per una bibliografia ragionata si veda J.P. Dupuy e I.
Robert, Les chronophages, cit.
Il monopolio
radicale dell'industria
Per
discutere fruttuosamente quale tetto sarebbe opportuno fissare alla
velocità di spostamento, conviene ritornare sulla distinzione
già fatta fra transito autoalimentato e trasporto motorizzato,
e confrontare il contributo di ciascuno di questi componenti al totale della
circolazione, che ho chiamato traffico.
Il termine “ trasporto ” sta a indicare il modo di circolazione
basato su un impiego intensivo di capitale, “ transito ” quello fondato su
un'alta intensità di lavoro.
Il
trasporto è il prodotto di un'industria, i cui clienti sono i
passeggeri. E’ una merce industriale, e quindi scarsa per definizione. Il
miglioramento del trasporto avviene sempre in condizioni di scarsità,
che si accentuano man mano che aumenta la velocità - e quindi il costo -
del servizio. Il conflitto che nasce dall'insufficienza di trasporto tende a
configurarsi come un gioco a somma zero, dove si vince solo ciò che un
altro perde. Al più, tale conflitto ammette quella che è la
soluzione ottimale nel “ dilemma del prigioniero ”: collaborando col
carceriere, entrambi i prigionieri se la cavano con un minor tempo da passare
in cella.
Il transito non è invece il prodotto di
un'industria, ma l'azione indipendente dei transienti. Ha per definizione un
valore d'uso, ma non necessariamente un valore di scambio. E’ una
capacità innata nell'uomo e distribuita in misura più o meno
uguale fra tutte le persone sane della stessa età. L'esercizio di tale
capacità può subire restrizioni quando si privano certe
categorie di persone della facoltà di prendere una strada diretta, o
anche perché una popolazione manca di scarpe o di selciati. Il conflitto
che nasce in presenza di condizioni di transito insoddisfacenti tende perciò
a configurarsi come un gioco a somma non zero, alla fine del quale tutti
guadagnano: non solo quelli che ottengono il diritto di attraversare una
proprietà precedentemente cintata, ma anche quelli che abitano lungo la
strada.
L'insieme del traffico è la somma di due modi di
produzione profondamente diversi. Questi si possono rafforzare l'un l'altro
armoniosamente solo nella misura in cui gli apporti autonomi vengano protetti
dal prevaricare del prodotto industriale.
I danni causati dal traffico odierno sono dovuti al monopolio
del trasporto. Il fascino della velocità ha ingannevolmente persuaso il
passeggero ad accettare le promesse di un'industria che produce traffico ad
alta intensità di capitale. Il passeggero è convinto che siano
stati i veicoli ad alta velocità a farlo progredire oltre la limitata
autonomia di cui godeva quando si spostava utilizzando la forza propria; ha
quindi lasciato che il trasporto programmato prevalesse sull'altro modo di
circolazione, il transito ad alta intensità di lavoro. Tra le
conseguenze di questa concessione, la distruzione dell'ambiente fisico è
quella meno deleteria; i risultati di gran lunga più amari sono le
frustrazioni psichiche che si moltiplicano, le disutilità crescenti
generate dall'incessante produzione, e l'iniquo trasferimento di potere che si
deve subire: fenomeni che manifestano tutti una relazione distorta tra tempo e
spazio. Il passeggero che consente a vivere in un mondo monopolizzato dal
trasporto diventa un angosciato e forzato consumatore di distanze delle quali
non può più decidere né la forma né la lunghezza.
Ogni società che imponga l'obbligo della
velocità schiaccia il transito a vantaggio del trasporto. Ovunque si
precludano non solo i privilegi ma anche le necessità elementari a chi
non usi mezzi di trasporto ad alta velocità, si determina un
accelerazione involontaria dei ritmi personali. L'industria diventa padrona
del traffico quando la vita quotidiana viene a dipendere da spostamenti
motorizzati.
Questo profondo dominio esercitato dall'industria del
trasporto sulla mobilità naturale è una forma di monopolio assai
più pesante sia del monopolio commerciale che una Fiat possa instaurare
sul mercato dell'automobile, sia del monopolio politico che l'industria
automobilistica possa assicurarsi a scapito delle ferrovie e delle autolinee.
Considerando la sua natura occulta, il suo profondo radicamento e il suo
potere di strutturare la società, io lo definisco un monopolio
radicale. Un'industria esercita questo tipo di monopolio quando diventa il
mezzo dominante per soddisfare bisogni che in precedenza davano luogo a una
risposta personale. Il consumo obbligato di un bene di scambio ad alta potenza
(il trasporto motorizzato) riduce la possibilità di godimento di un
valore d'uso abbondante (l'innata capacità di transito). Il traffico
offre qui l'esempio di una legge economica generale: qualunque prodotto
industriale venga consumato in quantitativi pro capite eccedenti una data
intensità, esercita una monopolio radicale sulla soddisfazione di un
bisogno. Oltre un certo punto, la scolarizzazione obbligatoria distrugge
l'ambiente adatto all'apprendimento, i sistemi di assistenza medica
inaridiscono le fonti di salute non terapeutiche, il trasporto strozza il traffico.
Si comincia a istituire un monopolio radicale riordinando
la società nell'interesse di coloro che consumano i quantitativi
maggiori; quindi lo si impone costringendo tutti a consumare almeno la dose
minima in cui il bene in questione viene prodotto. Il consumo obbligatorio assumerà
un aspetto nei settori industriali dove domina l'informazione, quali
l'istruzione o la medicina; e un aspetto diverso in quei settori dove i
quantitativi si possono misurare in unità termiche, come la costruzione
degli alloggi, l'abbigliamento o il trasporto. La confezione industriale dei
valori raggiungerà un'intensità critica in punti diversi a
seconda delle diverse produzioni, ma per ogni grande classe di prodotti la
soglia sta in un ordine di grandezza che è identificabile per via
teorica. Il fatto che sia possibile determinare teoricamente l'arco di
velocità entro cui il trasporto instaura un monopolio radicale sul
traffico, non significa che si possa determinare per via teorica fino a che
punto questo monopolio sia sopportabile da una data società. Il fatto
che sia possibile identificare un livello d'istruzione obbligatoria arrivati
al quale declina la capacità d'apprendere vedendo e facendo, non
permette al teorico di identificare gli specifici limiti pedagogici alla
divisione del lavoro sopportabili da una cultura. Solo attraverso il processo
giuridico e, soprattutto, politico si potrà pervenire a misure specifiche, anche se
provvisorie, con cui la velocità o l'istruzione obbligatoria saranno concretamente
sottoposte a limiti in una data società. L'ordine di grandezza dei
limiti volontari è una questione politica; l'usurpazione del monopolio
radicale può essere messa in evidenza dall'analisi sociale.
Un'industria non impone un monopolio radicale a tutta
una società per la semplice scarsità dei beni che produce o
perché elimina dal mercato la concorrenza, bensì grazie alla
capacità che possiede di creare e plasmare un bisogno che essa soltanto
è in grado di soddisfare.
In tutta l'America Latina le scarpe sono rare, e molti
non le portano mai: camminano a piedi nudi o calzano il più vasto
assortimento di ottimi sandali che esista al mondo, forniti da una
varietà di artigiani, e la mancanza di scarpe non ha mai limitato in
alcun modo i loro spostamenti. Ma in alcuni paesi latinoamericani la gente
è stata costretta a portarle da quando chi va a piedi nudi non è
ammesso a scuola, al lavoro e nei servizi pubblici: per gli insegnanti e per i
funzionari di partito, non portare scarpe equivale a mostrare indifferenza per
il “ progresso ”. Senza che ci sia stato alcun accordo intenzionale tra i
promotori dello sviluppo nazionale e l'industria calzaturiera, in questi paesi
gli scalzi sono ora esclusi da qualunque posto pubblico.
Come le scarpe, le scuole sono state rare in ogni tempo.
Ma non è mai stata l'esigua minoranza privilegiata degli scolari a fare
della scuola un impedimento all'acquisto del sapere. Solo quando delle leggi
hanno reso le scuole obbligatorie non meno che gratuite, l'educatore ha conquistato
il potere di negare possibilità d'istruzione sul lavoro al
sottoconsumatore di terapie scolastiche. Solo quando la frequenza scolastica
è diventata obbligatoria si è potuto imporre a tutti un ambiente
artificiale sempre più complesso che non lascia posto a chi non sia
scolarizzato e inserito in un programma.
Gli elementi che contengono in potenza un monopolio
radicale appaiono chiarissimi nel caso del traffico. Immaginiamo che cosa
accadrebbe se l'industria del trasporto potesse in qualche modo distribuire più
adeguatamente il suo prodotto: un utopico sistema di trasporto rapido e
gratuito per tutti porterebbe inevitabilmente a un'ulteriore espansione del
dominio del traffico sulla vita umana. Come si configurerebbe questa utopia?
Il traffico sarebbe organizzato esclusivamente in funzione dei mezzi di
trasporto pubblici; verrebbe finanziato mediante un'imposta progressiva,
calcolata in base al reddito e in base alla distanza del domicilio del
contribuente dalla fermata più vicina e dal posto di lavoro; sarebbe
concepito in modo da permettere a chiunque di occupare qualunque posto, secondo
il principio che chi prima arriva viene servito prima: nessun diritto di
precedenza verrebbe riconosciuto al turista, al medico o all'autorità.
In un simile paradiso degli sciocchi tutti i passeggeri sarebbero uguali, ma anche
tutti in egual misura consumatori coatti di trasporto. Ogni cittadino di questa
Utopia motorizzata sarebbe egualmente privato dell'uso delle gambe ed
egualmente impegnato a far proliferare le reti di trasporto.
Certi aspiranti stregoni travestiti da architetti propongono
una speciosa soluzione per uscire dal paradosso della velocità. A
sentir loro, l'accelerazione impone iniquità, perdite di tempo e
programmazioni d'imperio solo perché la gente non abita ancora nei
volumi e nelle orbite più confacenti ai veicoli. Secondo questi
architetti futuristi bisognerebbe che alloggi e luoghi di lavoro fossero concentrati
in grandi torri autosufficienti, collegate tra loro da rotaie per capsule
superveloci. Soleri, Doxiadis, Fuller risolverebbero il problema creato dal
trasporto ad alta velocità rovesciando il problema stesso sull'intero
habitat umano: anziché chiedersi come preservare per gli uomini la
superficie della terra, si domandano come creare le riserve indispensabili per
la sopravvivenza umana su una terra che è stata ridisegnata in funzione
dei prodotti industriali.
La soglia sfuggente
Paradossalmente,
l'idea di una velocità massima dei trasporti ottimale per il traffico
sembra bizzarra o fanatica al passeggero incallito, mentre al mulattiere appare
qualcosa di simile al volo d'un uccello. Una velocità quattro o sei
volte superiore a quella di un uomo a piedi è una soglia troppo bassa
perché il passeggero abituale possa ritenerla degna di considerazione, e
troppo alta per trasmettere il senso di un limite a quei tre quarti
dell'umanità che si spostano ancora con forza propria.
Tutti coloro che progettano, finanziano o organizzano
l'alloggio, il trasporto o l'istruzione altrui, appartengono alla classe dei
passeggeri. La capacità ch'essi rivendicano discende dal valore che i
loro committenti attribuiscono all'accelerazione. I sociologi sono capaci di
spiegare in termini di informatica gli ingorghi del traffico di Calcutta e di
Santiago, e gli ingegneri sono in grado di progettare ragnatele di monorotaie
ispirate ad astratte nozioni di flusso del traffico. Questi programmatori
credono veramente nella possibilità di risolvere i problemi con criteri
industriali, sicché la soluzione reale della congestione del traffico
resta fuori della loro capacità di comprensione. La fede nell'efficacia
della potenza impedisce loro di scorgere l'efficacia straordinariamente
maggiore che si può ottenere astenendosi dall'usarla. Gli ingegneri dei
traffico debbono ancora mettere d'accordo in un unico modello simulato la
mobilità della gente con quella dei veicoli.
L'ingegnere
del trasporto non è in grado neanche di concepire la rinuncia
alla velocità e un rallentamento inteso a permettere un flusso di traffico
ottimale quanto al rapporto tempo/destinazione. Mai penserebbe di
programmare il suo computer ponendo come postulato che in città un
veicolo a motore non debba mai superare la velocità d'una bicicletta.
L'esperto in sviluppo che dall'alto della sua Land-Rover guarda con compassione
il contadino indio che porta al mercato il suo branco di maiali, non è
disposto a riconoscere i vantaggi relativi dell'andare a piedi. Tende a
ignorare, l'esperto, che quell'uomo ha evitato ad altri dieci abitanti del
villaggio di perdere tempo per la strada, mentre l'ingegnere e tutti gli altri
membri della sua famiglia, l'uno separatamente dall'altro, dedicano al
trasporto una parte rilevante d'ogni loro giornata. Per chi è portato a
concepire la mobilità umana in termini di progresso indefinito, non
può esistere un tasso di traffico ottimale, ma solo un transitorio
consenso su una determinata possibilità tecnica del trasporto.
La maggior parte dei messicani, per non parlare degli
indiani e dei cinesi, si trova in una situazione opposta a quella del
passeggero incallito. La soglia critica di velocità si situa
completamente al di là di ciò che conoscono o si aspettano. Essi
appartengono ancora alla categoria degli uomini che si spostano con forza
propria. Qualcuno conserva il duraturo ricordo di un'avventura motorizzata, ma
i più non sanno cosa sia viaggiare a una velocità vicina o
addirittura superiore a quella critica. In due Stati messicani tipici, il
Guerrero e il Chiapas, nel 1970 neppure l'uno per cento della popolazione ha
percorso, anche una sola volta, più di sedici chilometri in meno di
un'ora. I veicoli nei quali si stipano a volte gli abitanti di queste regioni
rendono lo spostamento senza dubbio più conveniente, ma non molto
più rapido che se si andasse in bicicletta. L'autobus di terza classe
non separa il contadino dal suo maiale e li porta entrambi al mercato senza
fargli perdere peso, ma questa esperienza di “comfort” motorizzato non
dà come risultato una dipendenza da velocità distruttive.
L'ordine di grandezza in cui si colloca la soglia
critica di velocità è troppo basso per essere preso sul serio dal
passeggero e troppo alto per interessare il contadino. E’ perciò ovvio
che non si riesca a vederlo facilmente. La proposta di fissare un limite alla
velocità entro quest'ordine di grandezza si scontra con una caparbia
opposizione: da un lato infatti porta allo scoperto l'intossicazione degli
uomini industrializzati, schiavi di dosi d'energia sempre più forti,
dall'altro chiede a chi è ancora sobrio di astenersi da qualcosa che non
ha mai neanche assaggiato.
Proporre una controricerca non è solo uno
scandalo, ma anche una minaccia. La semplicità mette in pericolo lo
specialista, che si ritiene sia il solo a capire perché il treno dei
pendolari parta proprio alle 8,15 e alle 8,41 e perché convenga usare
una benzina provvista di certi additivi. Che attraverso un processo politico
si possa trovare una dimensione naturale, ineludibile e che segni un
limite, é un idea che non rientra nel mondo delle verità del passeggero.
In lui il rispetto per specialisti che neanche conosce si è tramutato
in cieca sottomissione. Se si potesse trovare una soluzione politica per i
problemi creati dagli esperti nel campo del traffico, allora si potrebbe forse
applicare lo stesso metodo ai problemi dell'istruzione, della medicina,
dell'assetto del territorio. Se dei profani attivamente impegnati in un
processo politico potessero determinare l'ordine di grandezza delle
velocità veicolari ottimali per il traffico, sarebbero allora scosse le
fondamenta sulle quali poggia la struttura di ogni società industriale.
Proporre questa ricerca è politicamente sovversivo; mette in discussione
quel sovrano consenso sulla necessità d'uno sviluppo del trasporto che
permette ora ai campioni della proprietà pubblica di definirsi avversari
politici dei sostenitori dell'impresa privata.
I gradi della mobilità autoalimentata
Un secolo
fa venne inventato il cuscinetto a sfere. Grazie a esso, il coefficiente
d'attrito si riduceva a un millesimo. Applicando un cuscinetto a sfere ben
calibrato tra due pietre da macina dell'età neolitica, un uomo poteva macinare
in un giorno quanto ai suoi antenati richiedeva una settimana di lavoro. Il
cuscinetto a sfere rese anche possibile la bicicletta, facendo sì che la
ruota - forse l'ultima delle grandi invenzioni del Neolitico - fosse finalmente
utilizzabile per la mobilità autoalimentata.
L'uomo, senza l'aiuto di alcuno strumento, è
capace di spostarsi con piena efficienza. Per trasportare un grammo del proprio
peso per un chilometro in dieci minuti, consuma 0,75 calorie. L'uomo a piedi
è una macchina termodinamica più efficiente di qualunque veicolo
a motore e della maggioranza degli animali; in rapporto al suo peso, nella
locomozione presta più lavoro del topo o del bue, meno lavoro del
cavallo o dello storione. Con questo tasso di efficienza l'uomo si è
insediato nel mondo e ne ha fatto la storia. Procedendo di questo passo le
società contadine e quelle nomadi spendono rispettivamente meno del 5 e
dell'8 per cento del loro tempo sociale fuori di casa o dell'accampamento.
L'uomo in bicicletta può andare tre o quattro
volte più svelto del pedone, consumando però un quinto dell'energia:
per portare un grammo del proprio peso per un chilometro di strada piana brucia
soltanto 0,15 calorie. La bicicletta è il perfetto traduttore per
accordare l'energia metabolica dell'uomo all'impedenza della locomozione. Munito
di questo strumento, l'uomo supera in efficienza non solo qualunque macchina,
ma anche tutti gli altri animali. Le invenzioni del cuscinetto a sfere, della
ruota a raggi tangenti e del pneumatico, messe assieme, si possono paragonare
solo a tre altri eventi della storia del trasporto. L'invenzione della ruota,
all'alba della civiltà, tolse i pesi dalle spalle dell'uomo e li depose
sulla carriola. L'invenzione, e la contemporanea applicazione, durante il
Medioevo europeo, della staffa, della bardatura e del ferro di cavallo
aumentò sino a cinque volte l'efficienza termodinamica del cavallo e
rivoluzionò l'economia dell'Europa medievale: rese possibili arature
frequenti, e quindi la rotazione delle colture agricole; mise a portata di mano
del contadino campi più lontani, permettendo così ai proprietari
di trasferirsi dai casali di sei famiglie ai villaggi di cento, dove potevano
vivere intorno alla chiesa, alla piazza, alla prigione e, più tardi,
alla scuola; favorì la coltivazione delle terre settentrionali,
spostando il centro del potere nei paesi a clima freddo. La costruzione, a
opera dei portoghesi del Quattrocento, delle prime navi alturiere, sotto
l'egida del nascente capitalismo europeo, gettò le solide basi di una
cultura e di un mercato estesi a tutto il globo.
L'invenzione del cuscinetto a sfere avviò una
quarta rivoluzione. Questa differiva sia dalla rivoluzione, sostenuta dalla
staffa, che aveva messo il cavaliere in groppa al proprio cavallo, sia da
quella, sostenuta dal galeone, che aveva ampliato l'orizzonte dei marinai del
re. Il cuscinetto a sfere aprì una vera crisi, un'autentica scelta politica:
creò la possibilità di optare tra una maggiore libertà
nell'equità e una maggiore velocità. Esso è infatti un
ingrediente parimenti fondamentale di due nuovi tipi di locomozione,
rispettivamente simboleggiati dalla bicicletta e dall'automobile. La bicicletta
elevò l'automobilità dell'uomo a un nuovo ordine, oltre il quale
è teoricamente impossibile progredire; al contrario, la capsula
individuale di accelerazione fece sì che le società si
dedicassero a un rituale di velocità progressivamente paralizzante.
L'impiego esclusivamente rituale di un congegno potenzialmente
dotato di utilità non è certo un fatto nuovo. Migliaia di anni fa
la ruota liberò dal suo fardello lo schiavo portatore, ma solo sul
continente euroasiatico; in Messico la ruota si conosceva, ma non veniva mai
adibita al trasporto: serviva esclusivamente alla costruzione di carrozze per
delle divinità-giocattolo. Il tabù per le carriole vigente
nell'America anteriore a Cortés non è più strano del
tabù per le biciclette nel traffico d'oggi.
Non è affatto inevitabile che l'invenzione del
cuscinetto a sfere continui a servire per accrescere il consumo energetico, e
quindi a produrre penuria di tempo, distruzione di spazio e privilegio di
classe. Se il nuovo ordine della mobilità autoalimentata reso
accessibile dalla bicicletta venisse protetto dalla svalutazione, dalla
paralisi e dai rischi per gli arti del ciclista, sarebbe possibile assicurare
a tutti una pari mobilità ottimale e metter fine all'imposizione del
massimo di privilegio e di sfruttamento. Sarebbe anche possibile controllare
le strutture dell'urbanizzazione una volta che l'organizzazione dello spazio
avesse come limite il potere che ha l'uomo di spostarsi in esso.
Le biciclette non sono soltanto termodinamicamente efficienti,
costano anche poco. Avendo un salario assai inferiore, il cinese per comprarsi
un bicicletta che gli durerà a lungo spende una frazione delle ore di
lavoro che un americano dedica all'acquisto di un'auto destinata a invecchiare
rapidamente. Il rapporto tra il costo dei servizi pubblici richiesti dal
traffico ciclistico e il prezzo di un’infrastruttura adatta alle alte
velocità, è proporzionalmente ancora minore della differenza di
prezzo tra i veicoli usati nei due sistemi. Nel sistema basato sulla bicicletta,
occorrono strade apposite solo in certi punti di traffico denso, e le persone
che vivono lontano dalle superfici in piano non sono per questo
automaticamente isolate come lo sarebbero se dipendessero dagli automezzi o dai
treni. La bicicletta ha ampliato il raggio d'azione dell'uomo senza smistarlo
su strade non percorribili a piedi. Dove egli non può inforcare la sua
bici, può di solito spingerla.
Inoltre la bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono
parcheggiare diciotto al posto di un'auto, se ne possono spostare trenta nello
spazio divorato da un'unica vettura. Per portare 40.000 persone al di là
di un ponte in un'ora, ci vogliono tre corsie di una determinata larghezza se
si usano treni automatizzati, quattro se ci si serve di autobus, dodici se si
ricorre alle automobili, e solo due corsie se le 40.000 persone vanno da un
capo all'altro pedalando in bicicletta. Di tutti questi veicoli, soltanto la
bicicletta permette realmente alla gente di andare da porta a porta senza
camminare. Il ciclista può raggiungere nuove destinazioni di propria
scelta senza che il suo strumento crei nuovi posti a lui preclusi.
Le biciclette permettono di spostarsi più
velocemente senza assorbire quantità significative di spazio, energia o
tempo scarseggianti. Si può impiegare meno tempo a chilometro e
tuttavia percorrere più chilometri ogni anno. Si possono godere i
vantaggi delle conquiste tecnologiche senza porre indebite ipoteche sopra gli
orari, l'energia e lo spazio altrui. Si diventa padroni dei propri movimenti
senza impedire quelli dei propri simili. Si tratta d'uno strumento che crea
soltanto domande che è in grado di soddisfare. Ogni incremento di
velocità dei veicoli a motore determina nuove esigenze di spazio e di
tempo: l'uso della bicicletta ha invece in sé i propri limiti. Essa permette
alla gente di creare un nuovo rapporto tra il proprio spazio e il proprio
tempo, tra il proprio territorio e le pulsazioni del proprio essere, senza
distruggere l'equilibrio ereditario. I vantaggi del traffico moderno
autoalimentato sono evidenti, e tuttavia vengono ignorati. Che il traffico
migliore sia quello più veloce lo si afferma, ma non lo si è mai
dimostrato. Prima di chiedere alla gente di pagare, i fautori dell'accelerazione
dovrebbero cercare di esibire le prove a sostegno di quanto pretendono.
Sta ormai per concludersi un orrendo combattimento tra
biciclette e motori. Nel Vietnam un esercito superindustrializzato ha cercato
di domare, senza riuscire a batterlo, un popolo che si muoveva alla
velocità della bicicletta. La lezione dovrebbe esser chiara. Gli
eserciti ad alto contenuto di energia possono annientare popolazioni - sia
quelle che difendono sia quelle contro cui vengono scatenati - ma non servono
granché a un popolo che difende se stesso. Resta da vedere se i
vietnamiti applicheranno all'economia di pace ciò che hanno imparato in
guerra, se vorranno proteggere quei valori che hanno reso possibile la loro
vittoria. E’ ahimè probabile che, in nome ,del progresso e di un
maggiore impiego di energia, i vincitori finiscano per sconfiggere se stessi
distruggendo quella struttura equa, razionale e autonoma cui i bombardieri
americani li avevano costretti privandoli di combustibili, di motori e di
strade.
Motori dominanti e motori ausiliari
Gli uomini
nascono dotati di una mobilità pressappoco uguale. Questa
capacità naturale di spostarsi parla a favore di un'uguale
libertà per ognuno di andare dovunque voglia. I cittadini di una
società fondata sul concetto di equità chiederanno che questo
diritto venga tutelato contro qualunque restrizione. Per loro non dovrebbe
fare alcuna differenza il mezzo con cui venga impedito l'esercizio della
mobilità personale: sia tale mezzo l'incarcerazione, il vincolo a una
terra, la revoca di un passaporto, oppure la relegazione in un ambiente che
usurpa l'innata capacità di muoversi dell'individuo allo scopo di farne
un consumat6re di trasporto. Questo diritto inalienabile alla libertà di
movimento non decade sol perché la maggioranza dei nostri contemporanei
si è lasciata immobilizzare da cinture di sicurezza ideologiche. La
naturale capacità umana di transito è anche l'unico metro per misurare
il contributo che il trasporto può dare al traffico: si ha solo tanto
trasporto quanto è compatibile col transito. Resta da evidenziare come
possiamo distinguere quelle forme di trasporto che menomano la capacità
di muoversi da quelle che la potenziano.
Il trasporto può ridurre la
circolazione in tre modi: spezzandone il flusso, creando gruppi di destinazioni
isolati, e aumentando la perdita di tempo connessa al traffico. Abbiamo
già visto che il fattore chiave nella relazione fra trasporto e traffico
è la velocità dei veicoli. Abbiamo anche visto come,
oltrepassata una certa soglia di velocità, il trasporto arriva a
ostruire il traffico nei tre modi che si è detto: blocca la
mobilità saturando l’ambiente di veicoli e di strade; trasforma il
territorio in una piramide di circuiti reciprocamente inaccessibili, secondo i
livelli di accelerazione; espropria il tempo in nome della velocità.
Se al di là di una certa soglia il trasporto
ostruisce il traffico, è vero anche il contrario: al di sotto d'un certo
livello di velocità, i veicoli a motore possono integrare o migliorare
il traffico permettendo di fare cose che non sarebbero possibili a piedi o in
bicicletta. Un sistema di trasporto ben organizzato, con velocità di
punta non superiori a 40 chilometri orari, avrebbe permesso a Fix di correre
dietro a Phileas Fogg intorno al mondo in meno della metà di ottanta
giorni. Gli automezzi possono servire a trasportare i malati, gli zoppi, i
vecchi e anche' i semplici pigri. Le teleferiche possono portare gente da una parte
all'altra delle colline, senza inconvenienti purché non scaccino lo
scalatore dalla sua pista. I treni possono ampliare l'ambito dei viaggi, senza
ingiustizie purché ognuno abbia non soltanto una eguale
possibilità di trasporto ma un eguale tempo libero per avvicinare altri.
Il tempo del viaggio deve essere, per quanto possibile, quello del viaggiatore:
un sistema di trasporto ottimale per il traffico si può realizzare solo
nella misura in cui il trasporto motorizzato sia vincolato a delle
velocità che lo facciano restare ausiliario rispetto al transito
autonomo.
Porre un limite alla potenza e quindi alla
velocità dei motori non basta di per sé a tutelare i più
deboli dallo sfruttamento dei ricchi e dei potenti, i quali possono trovare la
maniera per vivere e lavorare in posti meglio situati, viaggiare con un
seguito su carrozze di lusso, riservare corsie speciali ai medici e ai membri
del comitato centrale. Ma in un regime di velocità massima sufficientemente
limitata, questo tipo d'ingiustizia si può contenere o persino eliminare
con mezzi politici: mediante un controllo popolare sulle tasse, le strade, i
veicoli e. la loro regolamentazione all'interno della comunità. In un
regime che non ponga limiti alla velocità massima non c'è proprietà
pubblica dei mezzi di trasporto né perfezionamento tecnico del loro
controllo che basti a eliminare un crescente e disuguale sfruttamento.
L'industria del trasporto è essenziale alla produzione ottimale di
traffico, ma purché non eserciti il proprio monopolio radicale su
quella mobilità personale che è, intrinsecamente e principalmente,
un valore che si crea nell'uso.
Sottoattrezzatura, sovrasviluppo e tecnologia matura
Quelle
combinazione di trasporto e transito che costituisce il traffico ci ha fornito
un esempio di potenza pro capite socialmente ottimale, e della
necessità di sottoporre tale potenza a limiti stabiliti per via
politica. Ma il traffico sì può anche considerare come uno dei
vari modelli della convergenza degli obiettivi di sviluppo su scala mondiale, e
come un criterio per distinguere i paesi minoratamente sottoattrezzati da quelli
distruttivamente sovraindustrializzati.
Un paese si può definire sottoattrezzato quando
non è in grado di dotare ogni cittadino d'una bicicletta o di fornire
come supplemento un cambio a cinque velocità a chi voglia trasportare
gente pedalando. E’ sottoattrezzato se non può offrire buone strade
ciclabili oppure un servizio pubblico gratuito di trasporto motorizzato (ma
alla velocità delle biciclette!) per chi intende viaggiare per
più' di poche ore consecutive. Non esiste alcuna ragione tecnica, economica
o ecologica perché in qualsiasi luogo si debba oggi tollerare una simile
arretratezza. Sarebbe scandaloso se la mobilità naturale di un popolo
fosse costretta suo malgrado a stagnare a un livello pre-bicicletta.
Un paese si può considerare sovraindustrializzato
quando la sua vita sociale è dominata dall'industria del trasporto,
che determina i privilegi di classe, accentua la penuria di tempo e lega sempre
più strettamente la popolazione ai binari ch'essa le traccia.
AI di là della sottoattrezzatura e della
sovraindustrializzazione, c'è posto per il mondo dell'efficacia
post-industriale, dove il modo di produzione industriale è complementare
ad altre forme autonome di produzione. C'è posto, in altre parole, per
un mondo di maturità tecnologica. Per quanto riguarda il traffico,
è il mondo di coloro che hanno triplicato le dimensioni del loro
orizzonte quotidiano salendo su una bicicletta. E anche il mondo
caratterizzato da una varietà di motori ausiliari disponibili per i casi
in cui la bicicletta non basta più e una spinta suppletiva non limita
né l'equità né la libertà. Ed è, ancora, il mondo dei
lunghi viaggi: un mondo dove ogni luogo è accessibile a ogni persona,
secondo il suo talento e la sua velocità, senza fretta e senza paura,
per mezzo di veicoli che coprono le distanze senza far violenza alla terra che
l'uomo ha calcato per centinaia di migliaia d'anni.
La sottoattrezzatura tiene la gente in uno stato di frustrazione
per l'inefficienza del suo lavoro e incoraggia l'asservimento dell'uomo
all'uomo. La sovraindustrializzazione asservisce le persone agli strumenti
divenuti oggetto di culto, ingrassa di bit e di watt i gerarchi delle
professioni e porta a tradurre l'ineguaglianza di potere in enormi divari di
reddito. Impone ai rapporti di produzione di ogni società i medesimi
trasferimenti netti di potere, qualunque sia la fede professata dai dirigenti
e qualunque danza della pioggia o rito penitenziale essi guidino. La
maturità tecnologica permette a una società di seguire una rotta
libera da ambedue le forme di asservimento; attenzione però, quella
rotta non è segnata sulle carte. La maturità tecnologica permette
una varietà di scelte politiche e di culture. Tale varietà
diminuisce, ovviamente, quando una comunità lascia che l'industria si
sviluppi a scapito della produzione autonoma. Il raziocinio da solo non offre
una precisa unità di misura per stabilire il livello di efficacia
post-industriale e di maturità tecnologica confacente a questa o a
quella società; può solo suggerire in termini dimensionali
l'arco entro il quale queste caratteristiche tecnologiche devono essere
comprese. Bisogna lasciare alla comunità storica impegnata nei propri
processi politici il compito di decidere quando la programmazione, l'alterazione
dello spazio, la penuria di tempo e l'ineguaglianza non hanno più alcun
senso. Il ragionamento può cogliere nella velocità il fattore
critico del traffico; combinato con la sperimentazione, può identificare
l'ordine di grandezza entro il quale la velocità veicolare diventa un
determinante sociopolitico. Ma non esiste genio, né esperto, né
club elitario che possa fissare alla produzione industriale un limite che
risulti politicamente attuabile. La necessità di questo limite come
alternativa al disastro è il più forte argomento a favore della
tecnologia radicale.
Il limite di velocità dei veicoli può
diventare operativo solo quando rispecchia l'interesse illuminato della
comunità politica. Ma ovviamente tale interesse non può neanche
esprimersi in una società dove un 'unica classe monopolizza non soltanto
il trasporto, ma le comunicazioni, la medicina, l'istruzione, le armi. Che
questo potere lo detengano dei privati proprietari oppure i potenti managers
di un industria che giuridicamente appartiene ai lavoratori, non fa differenza.
Questo potere deve essere ricuperato e sottoposto all'equilibrato giudizio
dell'uomo comune. La riconquista del potere inizia quando ci si rende conto che
il supponente burocrate, proprio per la sua cultura da esperto, non è in
grado di vedere il modo più ovvio per superare la crisi energetica, come
non è stato capace di vedere la soluzione più ovvia della guerra
nel Vietnam.
Dal punto in cui ci troviamo, due sono le strade per
arrivare alla maturità tecnologica: una passa per la liberazione
dall'opulenza, l'altra per la liberazione dalla carenza. Entrambe hanno la
stessa meta, cioè una ristrutturazione sociale dello spazio che faccia
continuamente sentire a ognuno che il centro del mondo è proprio
lì dove egli sta, cammina e vive.
La liberazione dall'opulenza comincia nelle isole pedonali
dove ora i ricchi s'incontrano tra loro. Nelle società opulente coloro
che fruiscono di alte velocità sono sballottati da un'isola all'altra
senz'altra compagnia fuorché quella di altri passeggeri diretti da
qualche altra parte. Questa solitudine dell'abbondanza potrebbe cominciare a
rompersi se a poco a poco le isole pedonali si. espandessero e la gente
riprendesse a usare l'innata facoltà di muoversi intorno al luogo in cui
vive. L'ambiente impoverito dell'isola pedonale potrebbe così incarnare
l'inizio della ricostruzione sociale, e le persone che oggi si dicono ricche
potrebbero sottrarsi alla servitù del trasporto superpotente il giorno
in cui arrivassero ad amare l'orizzonte delle loro isole pedonali, ormai
giunte al pieno sviluppo, e ad aver paura di allontanarsi troppo spesso dalla
propria dimora.
La liberazione dalla carenza inizia dal punto opposto.
Spezza le costruzioni del villaggio e della vallata e fa cessare la noia
derivante dalla ristrettezza d'orizzonti e dalla soffocante oppressività
di un mondo chiuso in se stesso. Estendere il raggio d'azione della vita
quotidiana al di là della cerchia delle tradizioni senza disperdersi tra
i venti dell'accelerazione, è un obiettivo che qualunque paese povero
potrebbe raggiungere nel giro di pochi anni, ma al quale perverranno soltanto
quelli che sapranno rifiutare l'offerta di uno sviluppo industriale
incontrollato, suffragata dall'ideologia del consumo energetico illimitato.
La liberazione dal monopolio radicale dell'industria del
trasporto è possibile solo istituendo un processo politico che
demistifichi e detronizzi la velocità e che limiti la spesa pubblica di
denaro, tempo e spazio per il traffico al solo perseguimento di un eguale accesso
reciproco. Tale processo equivale alla sorveglianza pubblica su un mezzo di
produzione, volta a impedire che esso divenga un feticcio per la maggioranza e
un fine per i pochi. Il processo politico, d'altro canto, non avrà mai
il sostegno d'una vasta maggioranza se non fisserà i propri obiettivi
prendendo a riferimento un criterio che sia verificabile pubblicamente e
operativamente. Si ottiene un criterio del genere quando si riconosce una
soglia socialmente critica della quantità di energia incorporata in una
merce. Una società che tolleri la trasgressione di questa soglia storna
inevitabilmente le proprie risorse dalla produzione di mezzi che possano
essere condivisi equamente e le trasforma in combustibile per una fiamma
sacrificale che immola la maggioranza. Una società che invece limiti la
velocità massima dei propri veicoli in conformità con tale soglia
adempie una condizione necessaria - benché non certo sufficiente - per
il perseguimento politico dell'equità.
La liberazione, a buon mercato per i poveri,
costerà caro ai ricchi, ma essi ne pagheranno il prezzo allorché
l'accelerazione dei loro sistemi di trasporto avrà definitivamente
bloccato il traffico. Un'analisi concreta del traffico svela la realtà
che soggiace alla crisi energetica: l'impatto sull'ambiente sociale dei quanta
di energia confezionati dall'industria tende a provocare degradazione,
logorio e asservimento, e questi effetti entrano in gioco prima ancora di
quelli che minacciano di inquinare l'ambiente fisico e di estinguere la
specie. Il punto cruciale nel quale si possono invertire questi effetti non
è, però, oggetto di deduzione ma di decisione.